Il consiglio di amministrazione della Rai ha avviato l’iter preliminare della procedura prevista dalla legge n.220 del dicembre 2015 per la nomina del consigliere di amministrazione espresso dai dipendenti. L’articolo 2 della (contro)riforma prevede, infatti, che entro sessanta giorni dalla scadenza dell’organismo l’iter deve prendere avvio attraverso la pubblicazione dell’avviso sui siti: della Rai medesima, di Camera e Senato. Le fonti decisionali.
Il periodo inizia a fine mese, visto che l’attuale consiglio scadrà il prossimo 30 giugno con l’approvazione del bilancio. All’annuncio seguiranno i curricula delle persone che suppongono di candidarsi. La scelta dell’”interno” è delicata, perché il buon senso vorrebbe che il futuro presidente venga magari dai ranghi aziendali, per controbilanciare il resto della governance eventualmente espresso dall’esterno. E’ probabile che gli amministratori uscenti si rimettano al ministro competente e ai presidenti delle due assemblee parlamentari. Il quadro generale non offre certezze, come è evidente. E il servizio pubblico non vive su Marte. Tuttavia, è bene che si riaccendano i riflettori sull’azienda di viale Mazzini, al di là del rinnovo del consiglio. La Rai, infatti, sembra uscita di scena, quasi cacciata ai margini del villaggio globale. Il rimescolamento delle carte avviato dall’alleanza tra Sky e Mediaset, nonché dalla filiera che amplia la platea delle alleanze di Murdoch da Netflix a Disney con la prospettiva dell’integrazione cross-mediale con la rete, vede il servizio pubblico spettatore passivo. E’ l’effetto nefasto della suggestione dirigista sottesa alla legge del Natale 2015, volta a conquistare da parte del governo la plancia di comando. Di linee industriali e di strategie di sistema neanche a parlarne. Dopo l’interminabile chiacchiera sulla natura della Rai, il risultato concreto è stato tanto mediocre quanto devastante. Un uomo solo al comando volle l’allora presidente del consiglio, sbagliando pure la prima scelta. Grazie a simili tattiche di potere, ora attorno a quella che fu la principale azienda editoriale italiana si è fatto il vuoto. Se non ci fossero l’informazione e le fiction, per di più senza il calcio, i palinsesti sarebbero assai fragili. Lo stesso patrimonio straordinario della diffusione sul territorio e della capillarità degli impianti tecnici non è valorizzato.
Eppure, un servizio pubblico di nuova generazione potrebbe svolgere una funzione essenziale, per condurre una nuova alfabetizzazione degli italiani nell’era digitale, far vivere la memoria audiovisiva e sonora nel presente, contribuire al rilancio del cinema. Così, nella stagione delle fake la comunicazione di qualità è cruciale. Non solo. La vicenda dell’uso improprio dei dati scoppiato con il caso di Facebook interpella proprio la sfera pubblica, cui spetta il compito di porsi come interlocuzione autorevole rispetto agli oligarchi degli algoritmi, ai potenti mercanti delle identità personali. Insomma, ci sarebbe materia per riaprire la strada in Italia e in Europa (si voterà il prossimo anno) alla ri-costruzione di servizi spesso ingialliti.
Proprio per questo la scelta del prossimo consiglio di amministrazione si carica di valori simbolici. Che la rottura della vecchia dipendenza dai poteri, politici e non solo, si appalesi con l’entrata in scena di una compagine di eccellenza, in grado di rappresentare già in sé una novità e una rottura con il passato. La Rai è sempre un banco di prova. E anticipa i tempi.