“I nostri cervelli lavorano costantemente, in maniera estenuante e senza sosta per trasmetterci l’illusione che tutto sia sotto controllo, ma non è così… Il cervello è una macchina narrativa ed è davvero, davvero brava a fregarci!” (Nick Payne)
“Cogito ergo sum”: chi osa metterlo in dubbio (dopo Cartesio)? Eppure, e in attesa che gli etologi dimostrino, una volta per tutte, l’autocoscienza degli animali non umani, è da lì che ha inizio un certo tourbillon della coscienza felice o infelice, dell’essere o non essere in palcoscenico o in altro dislocamento, dell’essenza umana- ontologica o ruspante- e della sua apparenza che arrovellò ‘sino alla nausea’ Jung, Freud e soprattutto il beneamato Pirandello (con il suo dimenticato epigono, ma di gran classe, Rosso Di San Secondo).
I più spiritosi aggiungono: beata la dea Pallade che “fece tutto da sola”, obbligando padre Zeus a fuoriuscire (partenogenesi?) da cotanto cervello ed affermarsi, nella mitologia antica, custode e dispensatrice d’ogni umana sapienza o insipienza. E, perché no Anselmo Da Aosta (vado a memoria…) che, a tripudio del medioevo azzardò che l’esuberanza dell’umano pensare (ricordate le ‘punizioni’ inflitte ai disobbedienti nel “Nome della Rosa”?) comportasse qualcosa di sacrilego poiché “basta concepire la stessa idea di Dio per possedere la prova della sua esistenza”. E dunque a ‘che pro’ strizzare (ulteriormente, ontologicamente) la ‘materia grigia’ che, a tanti, piacerebbe inerte e appassita sin dalla sua nascita? Sia come sia non è un caso, come leggo da alcune note connesse allo spettacolo, che “la neuroscienza nasce in ambito anglosassone. E non poteva essere diversamente dato che in questa zona d’Europa siamo troppo affezionati all’anima per permettere al cervello di prenderne il posto.” Aspirando ciascuno di noi (spesso senza dirlo) “di essere qualcosa che trascenda il meccanico funzionamento del corpo”.
Una cosa è certa (ed ancor più ardua da ‘trasfigurare’ in ambito drammaturgico): “il cervello è un organo molto complesso e allo stesso tempo eccezionale, strutturato in modo tale da connettere innumerevoli funzioni”: incognite per definizione, più o meno come le (anelate) civiltà extraterrestri e quel bosone di Dio che s’inceppa ogni qual volta conquista nuove certezze. “Incognito” in sintesi come l’irruzione coraggiosa e spiazzante dello spettacolo in replica alla La Cometa di Roma, concepito e realizzato fuori da ogni ‘logica’ di botteghino, ma giusto per questo premiato ogni sera (o pomeridiana) da una folta affluenza di spettatori ‘avvezzi’.
Scritto da Nick Payne (“E’ nato un nuovo Stoppard?”), curato e tradotto dal regista Andrea Trovato, dopo i sold out delle edizioni inglesi e statunitensi, “Incognito” fa perno, a noi pare, su una sorta di dicotomia ‘irreparabile’ poiché “designata dalla percezione del sé” e dal “ricordo”, dal fluire mentale che (per consunzione di cellule) “quel se stesso” si trasforma in “altro”. Come rendere quindi teatro una materia letteralmente ostica e, per l’appunto cerebrale? Sceneggiando per segmenti sparsi, non lineari, “à rebours” tre vicende “inventate o realmente accadute” che dipendono da quel “talamo” che tutto dirama e a cui tutto converge, nelle modalità di sensazione, pensiero, intuizione, perplessità, telepatia e tant’altro.
In prima istanza scorre la bizzarra casistica di tal Thomas Stoltz Harvey che , nel 1955 eseguì l’autopsia su Albert Einstein, defunto a 76 anni per le conseguenze di un aneurisma dell’aorta addominale. All’insaputa degli eredi (dello scienziato) e sezionandolo in duecentoquaranta particelle le povere spoglie dell’illustre cadavere, Stolz Harvey fu costretto ad arrendersi a quanto era già prevedibile (senza ricorrere a tale scempio): l’imperscrutabilità della la mente umana “nella sua remota essenza”. E nella “maggior parte di essa” che ancora sfugge alla cognizione del “cosa ci sta a fare e quali segreti non osa rivelarci?”.
Tragico ed estremo protagonista di un altro caso clinico è Henry Molaison al quale, ad inizio degli anni cinquanta fu rimossa una parte del cervello (al fine di alleviarne le crisi epilettiche), e che a causa all’intervento subì la perdita cronica “della memoria a lungo termine”, condannato (come nella finzione filmica capitava al protagonista di “Memento”) a un “eterno presente”, appena alleviato dalla dedizione della moglie capace di tenerlo “fievolmente razionale” fino alla morte benigna (sopraggiunta dieci anni fa) “Conosciuto in ambiti scientifici come il paziente HM, è stato l’essere umano più studiato dalla neuroscienza”- leggo dalla note di regia, e non oso dubitarne.
La terza storia, ambientata ai giorni nostri, è dichiaratamente (poeticamente?) inventata e riguarda una neuropsicologa di nome Martha, quotidianamente tormentata da una complessa storia di affettività repressa, “sublimata e reiterata” dal trattamento delle amnesie dei pazienti. Con l’inevaso interrogativo di fondo: “sono più fortunati loro che non memorizzando dimenticano (ripenso al film “Se mi lasci ti cancello”, n.d.r.)” o è meglio che abbiano “senso e radice” ogni nostro dolore, rancore, ferita o perdita d’amore?
Affiatati e (meritevolmente) gratificati da una rara performance di attori- maieutici (proprio nell’accezione che Platone dava al termine), Giulio Forges Davanzati, Désirée Giorgetti, Graziano Piazza, Anna Cianca interpretano, in acrobatica sintesi e sincronia, ventuno personaggi che i tempi teatrali (e il gusto della decostruzione narrativa) portano a “viaggiare” oltre la nozione di tempo, di attesa e tempo del divenire: avanti e indietro, con sobbalzi e “intermittenze” di cuore e di mente, di grigio vestiti come la materia (oscura) verso la quale volgono, ciascuno a suo modo, la loro lente di Diogene. Ricavandone dubbi ulteriori nella perfetta scansione di una ‘pièce’ che non ammette distrazioni (della mente, delle cadenze, dell’incastro dialogico), ripagando protagonisti e spettatori di sottili momenti di umorismo (grigio-perla) incastonato, e tutto da scoprire, fra le pieghe di un ‘maelstrom scenico’, di un perfetto vortice centripeto che andrebbe antologizzato alla voce Psicodramma Contemporaneo.
“Incognito”
di Nick Payne Con: Graziano Piazza, Anna Cianca, Giulio Forges Davanzati, Désirée Giorgetti
Regia Andrea Trovato Scene Luigi Ferrigno Costumi Tiziana Massaro Luci Pietro Sperduti
Musiche originali Fabio Antonelli Assistente alla regia Marcello Paesano
Produzione Carmentalia e Gli Ipocriti
Sino al 22 Aprile al Teatro della Cometa di Roma