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Il racconto dei detenuti di Rebibbia: La povertà? E' non avere un buon avvocato

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Ho partecipato alla riunione di redazione di Radio Rebibbia, più sorprendente di quella di Repubblica, più ironica di quella del Corriere.

Riusciamo a non impaginare il piagnisteo anche se discutiamo di “populismo e carcere” ma con il divieto di citare Voltaire, Brecht, Dostoevskij e persino i Radicali, Rita Bernardini e l’Associazione Antigone. Il tema non è infatti quello della riforma penitenziaria che purtroppo non si farà e dello Stato italiano che, secondo la corte Europea, non custodisce ma tortura. «Cominciamo invece, come appunto si conviene a un giornale del carcere nei tempi del populismo, dai detenuti famosi» dice con allegria Manolo Mazzoni che è dentro, spiega, «perché rapinavo banche». Come al cinema? «Con la differenza che a Clint Eastwood hanno dato l’Oscar, a me venti anni». Manolo vorrebbe raccontare di quand’era a San Vittore e Gabriele Cagliari si suicidò «lasciando a bocca aperta l’Italia-di — fuori, ma non l’Italia-di-dentro». Lo interrompe però Massimo perché «qui c’è Schettino, che è il solo a non avere capito di essere Schettino». E poi «c’è Dell’Utri che è tornato tre giorni fa dalle sue visite mediche all’Humanitas» taglia corto con il tono acceso di chi porta la notizia.

Massimo, tanto per chiarire, è all’ergastolo per omicidio: «In un attimo di camera di consiglio mi hanno dato l’ergastolo. L’omicidio era durato di più». Ora ha il raro privilegio di una cella singola dove «il gabinetto sta nel mezzo» e dunque, «a volte, quando si affacciano per controllare, io sto seduto sul water»: «Tu che stai facendo?». «E tu che dici?». Nelle “normali” celle per 6 invece c’è una porta, ma — si alzano in sei mimando la scena — «qui si mangia e qui…», fanno un giro su se stessi, «e qui si c…».

Rebibbia può detenere un massimo di 800 persone, ma ne pigia 1.500. Tutti in un punto, che è un racconto di Italo Calvino: «In realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio».

Fastidio? «Quasi mai. Avevamo in cella un tipo con l’Aids, e noi abbiamo parenti, mogli, figli…

Eppure non volevano spostarlo, fingevano di non capire». E se uno ha la tosse o lo stomaco in disordine? «Su quello che fa bene e quello che fa male decide Goio, il venezuelano». E tutti in coro testimoniano il caso di quel ragazzo che «aveva un fungo sulla guancia sinistra e il dermatologo…». Goio si alza in piedi: «Altro che pomata! L‘ho curato con bicarbonato e limone, gli ho strappato i peli incarniti. E ora sta benissimo». Dove hai imparato? «In Amazzonia». A Carmine, Goio ha messo a posto la spalla, a Carlo la gastrite, a Vincenzo l’artrosi. Esagerano? Si divertono, con un senso di comunità che potrebbe fare impazzire di invidia quelli che fuori si perdono, biliosi, nella solitudine della Rete. E le guardie carcerarie? «Meglio fidarsi dei brutti ceffi che dei santarellini».

Radio Rebibbia, che va in onda su Radio Popolare ed è associata ad Antigone, è la creatura di un vecchio signore che qui viene volontario due volte a settimana da 5 anni. Si chiama Giorgio Poidomani, ne ha compiuti 82, ed è un manager famoso perché ha amministrato giornali. Chiama “ragazzi” questi suoi giornalisti che tra loro sono “colleghi”. E si capisce che le parole e gli abbracci, la radio e lo stare insieme a celle aperte (8 ore al giorno) sono un’ottima terapia anche contro il farsi male. Qui la prima causa di morte è il suicidio per impiccagione, un tanto di suicidio al mese, istogrammi, astrazioni per i sociologi: «tengono sotto sorveglianza il fenomeno sociale, ma i suicidi non hanno scrittori e dunque non ci saranno poeti che racconteranno le loro verità di disperazione e di coraggio»: «Quando hanno aperto la cella,/ era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Miché». E ci sono anche il tentato suicidio e l’autolesionismo.

Giancarlo ha il corpo sgargiante di graffiti come i ponti e i muri d’Italia. Tira su la maglia e mostra lo stomaco: una Madonna e, a sinistra, Gesù: «Ma è il Gesù del Bernini», precisa. Gli chiedo se è vero che «sono tutti sciocchi». Mi guarda storto. Gli dico che lo ha esclamato il giudice Piercamillo Davigo: «In cella vanno solo gli sciocchi!». Ecco, carcerato in quel punto esclamativo, c’è il dibattito che Mauro Armuzzi, fine pena nel 2023, riassume così: «Siamo sciocchi o siamo poveri ?».

Giancarlo, che persino sul testone rapato ha tatuato («certo che è stato doloroso») le parole RIBELLE e MEA CULPA, vale a dire il peccato e il pentimento, pensa che «siamo sciocchi perché siamo poveri!».

E torniamo ai famosi. Qui sono stati Cuffaro, che ha lavorato anche a Radio Rebibbia, Ciarrapico… «E tutti scriviamo libri, ma solo a loro li pubblicano». Qualcuno grida: «È così anche nell’Italia-di-fuori». Dell’Utri «spesso riceve la visita di Confalonieri e ogni volta in carcere si diffonde la leggenda che è arrivato in elicottero direttamente da Arcore».

Raccontano di altri malati di cancro. Massimo ne conosce uno che resiste da 26 anni. «E però tutti abbiamo visto che Dell’Utri è una persona molto umile» lo corregge Luigi Preiti, «anche se ha sempre avuto la cella singola con la doccia«. Preiti, il 28 aprile 2013, il giorno del giuramento del governo Letta, impugnò una 7,65 e, con la cravatta ben stirata, versione calabrese dei balordi di Jannacci, sparò non sul potere, ma sui carabinieri, lasciando per sempre invalido il brigadiere Giuseppe Giangrande. È condannato a 16 anni. Dice che vorrebbe dare a quell’uomo la sua salute, della quale si vergogna.

Mite e creativo, ha inventato un rudimentale sistema di areazione che alleggerisce gli odori di cucina che si diffondono nelle celle. La sua pena è educativa o espiativa?

E in carcere ci si ritrova o ci si perde? «Io sono stato in cella con mio padre e posso dire che è qui che finalmente l’ho conosciuto e l’ho capito» mi racconta Manolo, quello che è dentro perché rapinava banche come Clint: «Sono contro lo Stato» mi mormora, con allegria, all’orecchio. Politicamente come sei messo?. «Berlusconiano».

Faccio un sondaggio per alzata di mano: su una cinquantina di detenuti qui c’è un grillino, c’è uno di sinistra, e ci sono 15 berlusconiani. Anche il figlio di Manolo è stato in cella con lui: «Si è diplomato qui dentro e ora frequenta l’università, Ingegneria Informatica, è bravissimo». Due sedie più in la c’è Mauro Tavolacci, che è dentro per hackeraggio. Mi mormorano all’orecchio che «ha rubato 6,6 milioni alla Banca di Inghilterra senza muoversi da casa, e anche i giudici sono rimasti impressionati». Vero? Falso? La malinconia del carcere è come l’aria rarefatta che si respira nelle alte quote, a volte la depressione spinge a minimizzare il delitto a volte a gonfiarlo. È per questo bilanciamento sbilanciato che in carcere c’è così tanta droga?

Dell’antidoto chimico alla malinconia, della cocaina «che non mente mai» come canta Eric Clapton, potrebbe parlare Roberto Pecci che è «fascista e laziale» e per anni ha importato ogni settimana dalla Colombia un container di statuette imbottite di droga che le guardie (corrotte) non vedevano. Gli hanno sequestrato beni per trenta milioni e una collezione di moto d’epoca, ma ora spinge la sedia a rotelle di Giuseppe Di Bello, semiparalizzato da una pallottola. Di Bello rubava gasolio in una casa vicino a Cassino. I padroni, due fratelli armati, se ne accorsero e lui li uccise. Continua a sostenere che non voleva ammazzare. Gli diedero l’ergastolo. Ora la pena è stata ridotta a trent’anni. La sua donna, Federica, ha un profilo su Facebook: «Noi due sempre insieme». Emanuele, che invece uscirà fra tre mesi, è stato appena lasciato dalla moglie. A ciascuno la sua croce.

«La povertà — sostiene, tornando al punto, Saaoud Mohcine, marocchino — è non avere un buon avvocato». Saaoud, in Calabria, è «cresciuto», dice, «con Ruby». Con chi? «Con la nipote di Mubarak» risponde e si mette a ridere dando uno scappellotto a Dina, che è egiziano. E comincia anche Saaoud a raccontare, dalla prima all’ultima rapina, perché Radio Rebibbia è una comunità di raccontatori che ho visto ridere, aiutarsi e pentirsi insieme con un ardente cameratismo che brucia l’autocommiserazione: «Qui tutto costa di più», si lamenta Beppe Camilli, che è andato a ripulire Colle Oppio anche se «qualcuno non ci voleva: preferiscono che il parco rimanga sporco». Dicono che «una confezione di caffè Lavazza fuori costa 3,39 euro mentre a Rebibbia è segnata 3,81.

E persino sul Voltaren, scritta a mano, c’è una maggiorazione del prezzo».

Su un giornale che si rispetti ci vuole lo spettacolo. Mauro Armuzzi e Carlo Bna, condannati per narcotraffico sono gli artisti, barbuti e capelloni, che hanno fondato il laboratorio «Chi come noi». Presto andranno in scena con la storia in musica di un terrorista che viaggia su un treno immaginando attentati, ma ad ogni stazione perde un po’ di se stesso e della sua identità criminale.

A tutti questi “ragazzi”, ai colleghi di Radio Rebibbia piacerebbe moltissimo prendere il caffè di Don Raffaè che «pure in carcere ‘o sanno fa» con Roberto Saviano.

«Abbiamo letto i suoi articoli su Repubblica, e ci hanno commosso proprio perché del carcere non parla più nessuno e l’Italia vuole buttare via tutte le chiavi».

Ecco: qui Saviano sta forse occupando un po’ del vuoto lasciato da Marco Pannella, che non solo digiunava per la giustizia e per l’amnistia, ma nell’ingiusto e nel disumano delle prigioni, nel bugliolo, nella puzza e nelle violenze dell’universo concentrazionario scopriva l’umanità dell’Italia.

Francesco Merlo, Repubblica

da sanfrancesco
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