E se avessero tutti ragione? Quelli che dicono no, quelli che dicono sì, quelli che dicono ni e quelli che restano in silenzio, per saggezza, distrazione o indifferenza? Tutte le opinioni ormai si equivalgono, come sapeva Protagora (V sec a.C.), agnostico, maestro di retorica e amico di Pericle, capace di dimostrare, con i suoi “discorsi doppi”, che tutto e il contrario di tutto è egualmente vero. E’ la condizione che stiamo vivendo in Italia. Gli elettori, dopo aver creduto a tutto quello che promettevano i leader più abili ed aggressivi, Di Maio e Salvini, si ritrovano con promesse e programmi liquefatti o alterati nei meandri della rete. Centrodestra (37%) e 5S (33%), stanno sperimentando l’amarezza della “non vittoria”, che aveva umiliato il povero Bersani. Non solo. Gli insulti, le fake news, i veleni comunicativi inoculati nel corpo elettorale continuano a paralizzare il dibattito politico, ben oltre alle intenzioni di chi li ha utilizzati come armi di distruzione di massa contro un nemico da annientare.
Dopo le elezioni è iniziato il minuetto tra i due “non vincitori”. Salvini ha cambiato tono, si è avvicinato ai 5S senza tradire il vecchio Berlusconi, anche se sui social media -sempre malevoli e sospettosi- serpeggia l’illazione che la Lega dipenda economicamente dall’ex cavaliere. Il più abile nei “discorsi doppi”, senza l’eleganza dell’antica sapienza retorica, è stato Luigi Di Maio, che ha proposto lo stesso contratto sia a destra sia a sinistra. Il rapporto tra Salvini e Di Maio è stato idilliaco finché si è trattato di spartirsi tutte le poltrone istituzionali, ma si è infranto sul macigno Berlusconi, carico di televisioni, processi, amicizie equivoche, e condannato definitivamente per frode fiscale. L’ex cavaliere, più combattivo che mai, si è posto al centro del teatrino della politica con una imperdibile sceneggiata televisiva e poi ha detto che i 5S sono un pericolo per la democrazia e sono come Hitler per gli ebrei. Ma Salvini si è limitato a un sorriso paziente.
E così il pallone è arrivato nel campo del Pd, che sperava di guardare la partita tranquillamente in panchina.
Il partito, sul quale Renzi non molla la presa, è andato a schiantarsi alle elezioni del 4 marzo, non ha ancora elaborato il lutto, non ha abbozzato alcuna analisi seria e dolorosa sulla sconfitta, e soprattutto è rimasto quasi paralizzato nell’azione, come un pugile alle corde che aspetta solo il gong per andare a sedersi nell’angolo a recuperare un po’ di fiato.
Forse il Pd, che alcuni vedono a rischio estinzione, avrebbe bisogno di un po’ di tempo per la convalescenza, con buoni libri da rileggere, lunghe passeggiate nelle periferie abbandonate, terapia di gruppo nelle sezioni che non esistono più.
E invece no. Dopo quasi due mesi di paralisi politica, con lo spettro del ritorno alle urne, lo striminzito 18% racimolato dal Pd diventa prezioso, anche se quasi insufficiente, per garantire una difficile governabilità. Al suo interno, come al solito, i discorsi sono doppi, tripli, quadrupli, variabili a piacere. C’è chi pensa che un po’ di opposizione sarebbe un ottimo ricostituente e chi non rinuncia al principio di responsabilità, chi vuole andare a vedere le carte dei 5S, anche perché milioni di elettori democratici li hanno votati, e chi non dimentica le offese sanguinose che Grillo e soci hanno scaricato su un partito considerato “il male assoluto e anche peggio”. Nemmeno il maestro Protagora saprebbe districarsi nella foresta di opinioni che si stanno attorcigliando. Tra i residui militanti Pd spopola l’hastag #senzadime, che -dopo falce e martello, il libro e il sole ormai al tramonto- sembra diventato il nuovo simbolo di ciò che rimane della sinistra democratica e riformista. Il Pd dovrebbe ricominciare a far politica, quella vera, tra i veri problemi delle persone, e invece si dividerà tra 5S sì, 5S no, 5S forse, mentre qualcuno ricomincerà a pensare che l’ex caimano non era troppo male. E tutti avranno ragione, ma anche torto, come sapeva il vecchio Protagora.
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