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Ernesto Ruffini, un cardinale dei suoi tempi

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di Vincenzo Ceruso

Ernesto Ruffini è stato un complice della mafia? La fama che circonda il cardinale di Palermo, al di là delle critiche fondate che gli sono rivolte, è il prodotto di un tipico modo inquisitorio di leggere la storia, per cui tutto si riduce a trovare colpevoli e innocenti, senza entrare nella complessità dei tempi e degli uomini.
Non è facile, in pochi tratti, descrivere una figura come quella di Ruffini, arcivescovo di Palermo durante un lungo e complicato periodo.
L’alto prelato prende possesso del suo incarico in una città umiliata e ridotta in macerie dalla guerra, nel 1946, e la lascia nel 1967, più ricca, certamente, tornata a rivestire il ruolo di capoluogo dell’isola; ma anche completamente sfigurata dalla speculazione edilizia, grazie alla quale si sono arricchiti tanti boss mafiosi. Ruffini è originario di Mantova e si è formato nella Chiesa preconciliare, come “un curiale tra carità e cultura” (Angelo Romano, 2002, p. 41). Colui che arriva in Sicilia è un uomo d’ordine, vicino all’ideologia del Sant’Uffizio, vive le passioni della Guerra Fredda ed è un acceso anticomunista. È un convinto sostenitore del partito cattolico e della necessità di schierare il suo popolo al fianco della Democrazia Cristiana, contro l’avanzata socialcomunista.
Al Cardinale Ruffini possono essere rimproverate molte cose, in particolare di aver considerato la mafia come una forma comune di delinquenza e come il prodotto del degrado siciliano; di non aver capito il suo carattere di organizzazione segreta e il non aver voluto vedere i suoi collegamenti con il potere e con le classi agiate.
Senza entrare nel merito delle singole accuse, proviamo però ad accostare due citazioni:
“Non è mai esistita un’organizzazione criminale segreta, gerarchica e centralizzata chiamata mafia, ‘Ndrangheta o Onorata Società, i cui membri siano legati l’un l’altro da giuramenti di mutua fedeltà e assistenza, effettuati nel corso di tenebrose cerimonie”;
“Il titolo di mafioso venne quindi esteso a significare persone e costumi di particolare parvenza ed eleganza; ma poi assunse il valore attuale di associazione per delinquere, e qui è necessario richiamare le condizioni dell’agricoltura nella Sicilia Centrale e Occidentale di quei tempi. Venuta meno la difesa che proveniva dal l’organizzazione feudale e infiacchitesi il potere politico, i latifondisti ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e di poveri agricoltori per assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si venne così a costituire uno Stato nello Stato, e il passo alla criminalità, per istinto di sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve”.
La prima citazione è del sociologo Pino Arlacchi e la troviamo nel suo classico lavoro, La mafia imprenditrice, pubblicato all’inizio degli Anni Ottanta; la seconda si trova nella lettera pastorale scritta dal cardinale Ruffini nel 1964.
Non è difficile stabilire chi dei due si sia avvicinato di più alla realtà. Ruffini ha capito dunque tutto? Al contrario, per esempio non ha promosso un’azione educativa su quei punti di contatto che esistono tra ideologia mafiosa e mentalità siciliana. Peraltro, si tratta dell’invito che gli viene rivolto, in una famosa lettera scritta dalla Segreteria dello Stato Vaticano, all’indomani di una strage e di una pronuncia contro la mafia da parte del pastore valdese Panascia.
Allo stesso modo, non ha saputo, o non ha voluto, vedere le degenerazioni del partito cattolico e le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni. Ma quel che non può essere rimproverato a Ruffini è di aver vissuto nel suo tempo, cioè con le categorie e le conoscenze sulla mafia che all’epoca sono condivise da gran parte della magistratura. Il vescovo mantovano avrebbe potuto leggere le cronache che il giornale comunista L’Ora scrive sulla mafia e avrebbe potuto capirne di più sul fenomeno. Ma non credo si ricordino molti vescovi che, allora, abbiano attinto informazioni dalla stampa comunista.
Ruffini ritiene che la Sicilia sia gravemente diffamata dagli avversari politici della Democrazia Cristiana, che usano la questione criminale per scopi politici (le sue accuse di diffamazione si estendono a Danilo Dolci e al bellissimo romanzo Il Gattopardo, scritto da Tomasi di Lampedusa).
Ma anche questo non fa di lui un filomafioso.
Nel 2010, l’allora ministro degli Interni Roberto Maroni, il cui impegno sul versante repressivo della lotta antimafia non è mai stato messo in discussione, interviene sdegnosamente contro lo scrittore Roberto Saviano, che ha parlato di infiltrazioni mafiose al nord. Stesso riflesso condizionato?
Con una piccola differenza: Ruffini scrive negli anni Sessanta del ‘900 e possiede qualche informazione in meno su Cosa Nostra, di quante ne abbia il ministero degli Interni negli anni Duemila.

da mafie


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