Quelle note, quella poesia, la meraviglia di quelle denunce puntute e mai banali e poi quel suo modo di essere, scanzonato e apparentemente naïf ma in realtà incredibilmente incisivo e presente nella battaglia politica e sociale di mezzo secolo di storia italiana: sono davvero tanti cinque anni senza l’arte poliedrica di Enzo Jannacci.
Ci lasciò nel 2013, a settantasette anni, ed ecco che d’improvviso ci sentimmo soli. Ci venne a mancare, infatti, il cantautore della fabbrica, della periferia, dei quartieri degradati e della lotta per la sopravvivenza, il cantante della dignità degli ultimi e degli oppressi, il cantore dei deboli, dei poveri, dei minatori o, più semplicemente, degli ingenui, dei non arresi, di coloro che non fanno carriera, non finiscono sotto i riflettori, di cui nessuno o quasi si occupa mai, non possedendo il cinismo necessario per emergere in una società sempre più prigioniera della propria boria e della propria intrinseca malvagità.
Jannacci lottatore, Jannacci controcorrente, Jannacci antico e modernissimo, Jannacci in direzione ostinata e contraria, tendenzialmente anarchico, essenzialmente libero, incapace di assoggettarsi a chicchessia, di accettare padrini e padroni, di tollerare l’ingiustizia, la violenza e la cattiveria in qualunque forma esse si presentassero.
Jannacci e la Milano di una volta: quella del cabaret, quella che sapeva castigare ridendo, quella ribelle, quella che non ha mai dimenticato la strage di piazza Fontana, i suoi mandanti occulti e i suoi esecutori, quella che gridava contro il potere, quella che si inchinava unicamente di fronte al buonsenso, quella che ci teneva ad essere la capitale morale d’Italia, quella di Beppe Viola e di Giorgio Gaber, di Enzo Biagi e di Dario Fo, la Milano che sapeva vivere intensamente, che aveva un’anima e non si era ancora piegata alle logiche del business.
Jannacci, come detto, ha sempre costituito una stecca nel coro, una nota stonata nell’orchestra del conformismo, un inno alla ribellione, all’irriverenza e alla follia.
Jannacci amava la musica ma soprattutto la considerava uno strumento potentissimo per provare, se non a cambiare il mondo, quanto meno a risvegliare le coscienze sopite della cittadinanza.
E no, oggi non si sarebbe trovato affatto bene, crediamo, in questa Milano e in questa Italia incapaci di sorridere e di sognare, di prendersi in giro e di guardarsi intorno, di considerarsi in maniera sobria e schietta e di non prendersi sempre troppo sul serio, fino a smarrire proprio quella serietà di cui il ridanciano Enzino era uno dei massimi interpreti.
Era, per dirla con il testo di una delle sue canzoni più belle, un fiore di campo nato in miniera. Era un modello e un punto di riferimento: il simbolo riconosciuto di una società e di un mondo che purtroppo non esistono più.
Per questo, pur provando un immenso dolore all’idea di non averlo più fra noi, pensiamo che in fondo sia giusto così, che si sia risparmiato tanto dolore e, più che mai, quel senso di smarrimento e di perdita di appartenenza che, con ogni probabilità, gli avrebbero arrecato un’indicibile sofferenza.
Jannacci se ne è andato al momento opportuno, dopo aver detto tutto ciò che aveva da dire, e quasi per sfida, per ripicca, lasciandoci soli a combattere con questo mostro chiamato indifferenza che aveva denunciato e contrastato per una vita e al quale, andandosene, si è rifiutato di sottomettersi. Bastian contrario fino alla fine, dispettoso e sfrontato come solo i grandi sanno essere: in questo sta la sua unicità e il nostro rimpianto.
P.S. Addio ad Arrigo Petacco, scomparso all’età di 88 anni dopo una vita trascorsa a raccontare e interpretare la storia. Credo che, almeno professionalmente, non ci sia gioia più grande
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