di Angela Panzera
«Benefattore e padre degli africesi» da un lato e «il religioso calabrese legato per antonomasia alla ‘Ndrangheta» dall’altro: è questa la doppia memoria legata alla figura di Don Giovanni Stilo.
Su di lui si sono scritti fiumi e fiumi di inchiostro, articoli, libri, dossier, sentenze prima di condanna e poi assolutorie. Nonostante sia morto da 18 anni il suo nome, e la vicenda giudiziaria che lo ha riguardato, appare ancora oggi nelle ordinanze di custodia cautelare che la procura antimafia di Reggio Calabria ottiene nei confronti dei soggetti legati alla criminalità organizzata della Locride e della profonda Jonica.
E appare proprio per descrivere l’humus e la genesi dei rapporti intrecciati tra le principali famiglie mafiose calabresi come Nirta, Morabito, Palamara, Barbaro, Papalia e gli ambienti deviati delle istituzioni clericali, delle forze dell’ordine e della massoneria.
L’opinione pubblica è però, ancora spaccata in due. La sua “carriera” lo ha visto essere per cinquant’anni sacerdote di Africo, nella diocesi di Locri. Nel 1951 il piccolo centro della jonica venne colpito da un’alluvione che spazzò via l’intero paese e vide morire tre persone. Don Stilo, in questo contesto, assunse il ruolo di vera e propria guida spirituale degli esodati. La prefettura reggina ordinò agli abitanti di allontanarsi dal sito, ritenuto pericoloso, e di ripararsi nella vicina Bova e contestualmente furono disposti aiuti rivolti anche alla ricostruzione di Africo a ridosso della zona marina. In seguito alla decisione della prefettura si parlò di vero e proprio “miracolo”, un miracolo tutto da addebitare all’operato del parroco africese.
Un merito che però, si portò dietro l’ira degli abitanti di Casilinuovo, colpito anch’esso dall’alluvione, ma rimasto escluso dai benefit prefettizi. Già in quegli anni furono evidenziati i legami del sacerdote con la politica locale e gli ambienti criminali. Africo infatti, divenne il suo feudo, il suo regno, il campo base del suo operato che andò ben oltre quello di uomo di Chiesa.
Si parlò della costituzione di un vero e proprio “ufficio di collocamento” che Don Stilo ha eretto fra le mura della sua sacrestia. Fonda cooperative agricole, come quella lattiero-casearia “la Cooperazione”, vende e compra terreni e nel corso del tempo allarga i suoi orizzonti “imprenditoriali”. C’è chi lo accusò di aver costruito una fitta rete clientelare che gli permise di “sistemare” i propri parenti come il fratello Salvatore il quale diventerà sindaco tra le fila della Democrazia cristiana.
C’è chi lo vorrebbe invece “santo” poiché è riconducibile a lui l’assegnazione di posti di lavoro, ai cittadini africesi, all’interno del Corpo Forestale, la costruzione della ferrovia e della scuola. Proprio nel mondo della scuola Don Stilo blinderà la sua “carriera” e si assicurerà la benevolenza dei cittadini. Costituì, nella nuova Africo, un istituto privato, la ”Serena Juventus”, un “diplomificio” che permise a molti giovani di ottenere l’agognato titolo didattico. Le lezioni però, non erano affatto gratis ma a pagamento ed ancor di più remunerativo era l’ottenimento della maturità, appellata poi come “maturità facile”, per la quale l’istituto divenne famoso in tutta Italia. I diplomi inoltre, si sarebbero rivelati anche eccellente merce per lo scambio di favori nel sistema clientelare e tra i maturandi vi furono molti mafiosi calabro-siciliani, tra i quali don Agostino Coppola, sacerdote e sequestratore, legato ai corleonesi, nipote di Frank “Tre Dita”
Africo e Corleone, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, negli Anni Ottanta furono sempre più strette e il legame vide tra i protagonisti proprio Don Stilo. Il sei agosto del 1984, su ordine del sostituto procuratore Ezio Arcadi, polizia e carabinieri arrestarono il sacerdote che soggiornava presso l’albergo “Lombardia” di Montecatini Terme. L’accusa era pesantissima: la procura di Locri lo riteneva un elemento di spicco della cosca Ruga-Musitano-Aquilino. Una ‘ndrina che avrebbe operato, con altre famiglie mafiose locali, in alcuni sequestri di persona.
Il capo di imputazione aveva preso corpo attraverso intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, così come disse il “pentito” Franco Brunero, e di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli.
Salomone, il primo marzo del 1983, si presentò ai carabinieri di Africo dopo essere fuggito dal soggiorno obbligato a Sacile, in provincia di Udine. Ai militari Salomone raccontò di essere stato, poco prima, a casa di don Giovanni Stilo. Per gli inquirenti il prete lo aveva ospitato e protetto nel giorno in cui boss di San Giuseppe Jato era “scomparso” ed è per questo che venne accusato anche di favoreggiamento personale.
Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti ma, nel contempo era stato scarcerato. La Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, rimise tutto in discussione e ordinò un nuovo processo di secondo grado che venne celebrato a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa. Un’assoluzione che poi divenne definitiva ma che, non riabilitò del tutto il prelato anche se negli anni ebbe comunque la totale libertà di gestire le sue attività godendo di entrambi gli occhi serrati della Chiesa e dell’appoggio della Dc. Nei suoi confronti il Vaticano non prese mai provvedimenti, neanche quando venne condannato. Le istituzioni religiose, locali e nazionali, si trincerarono dietro un imbarazzante silenzio.
Il “prete padrone” di Africo morì il 9 dicembre del 2000 e con sé portò dietro una serie di segreti che ancora oggi, e proprio oggi, vanno ad intrecciarsi con la storia criminale di Calabria e Sicilia e persino dell’Italia intera. Gli stessi segreti che riguardano due grandi boss siciliani: Liggio e Riina. Già nell’estate del 1974, secondo un’informativa della Guardia di Finanza, “Lucianeddu” Liggio avrebbe trascorso una parte della sua latitanza, proprio ad Africo, ospitato da Don Stilo e sempre ad Africo “u zi Totò”, vestito da prete, si sarebbe recato spesso. Qui il boss corleonese sarebbe stato ospitato dal mammasantissima Giuseppe Morabito alias “U’ tiradrittu”.
Fu durante una delle tante visite in Calabria che Riina stipulò l’alleanza con la ‘Ndrangheta? È nella Locride che calabresi e siciliani decisero di dar vita alla stagione delle cosiddette stragi “continentali”? A queste domande sta cercando di rispondere il processo della procura antimafia reggina scaturito dall’indagine ‘“Ndrangheta stragista”. Proprio agli atti dell’inchiesta ci sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca che i legami fra mafia calabrese e siciliana li conosce bene. «Ci sono stati ottimi rapporti tra ‘Ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà- dirà Barreca ai magistrati – sulla Ionica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don Stilo e Antonio Nirta», Quest’ultimo era il boss indiscusso di San Luca e sarebbe stato in contatto con il prete di Africo. Così come Giovanni Sigilli, capomafia di Taurianova, a cui avrebbe battezzato il figlio e poi Vincenzo Femia ‘ndranghetista di Casignana a cui celebrò le nozze ed infine a ‘Ntoni Macrì mammasantissima di Siderno a cui chiese una “raccomandazione”, come dichiarò lo stesso boss. Ed infine, una serie di massoni legati alla P2 e a mafiosi siciliani.
Come Giovanni Brusca, l’assassino di Giovanni Falcone il quale, durante il processo per l’omicidio del giudice calabrese Antonino Scopelliti, disse: «Quando avevamo perso le speranze degli agganci in Cassazione per l’esito del maxiprocesso, nell’agosto 1991 abbiamo incontrato Don Stilo, conoscendolo come persona influente in campo politico». Verità o calunnie? Su questo opinione pubblica e giustizia sono ancora spaccate in due.