BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Davanti al giudice il re è nudo

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“La legge è uguale per tutti”: ma per moltissimi anni a Catania non è stato affatto così. Adesso, per la prima  volta, l’establishment – nella persona di Mario Ciancio –  è chiamato a rispondere alla giustizia delle sue azioni. Una lunghissima battaglia di una minoranza civile
Ogni giorno le piazze più povere della città di Catania si riempiono di soldi. Centinaia di migliaia di euro frutto di paghe e paghette di carpentieri, avvocati, insegnanti, studenti e imbianchini vengono frettolosamente consegnate a ragazzotti e bambini di San Cristoforo, Librino, San Giovanni Galermo. Centinaia di migliaia di euro che ogni giorno, all’albeggiare, sottratta la giusta paga, cinquanta euro per la vedetta, cento euro per l’addetto alla vendita, finiscono nelle mani di chi tiene i conti del clan.

Matteo Iannitti

I palazzi non hanno l’intonaco, il fetore della fogna invade gli androni delle case popolari, i padri benedicono gli incidenti stradali dei figli, che possono fruttare qualche soldo di assicurazione, eppure le banconote da cinquanta euro girano a migliaia, nelle stesse vie, negli stessi palazzi, dentro la stessa miseria, ma nelle mani di pochi. Soldi della droga, della cocaina, delle armi, delle rapine, delle estorsioni, dei rifiuti. Milioni di euro che scompaiono per poi riapparire nei miracolosi investimenti in locali commerciali senza alcun cliente, in imprese edili senza patrimoni, in concessionarie d’auto, discoteche, centri scommesse, grandi operazioni finanziarie ed edilizie.

A Catania la mano che prende dal ragazzino gli incassi della piazza di spaccio è la stessa che sfiora i gemelli della camicia bianca dell’imprenditore, la stessa che da una pacca sulla spalla al candidato alle elezioni. Una mano armata, carica di soldi sporchi.

I clienti della mafia.

A Catania la mafia non ha solo vittime, ha anche clienti. Clienti come l’assessore comunale che dieci anni fa, preso a cazzotti da un venditore ambulante, decise di rivolgersi a un esponente di spicco del clan Cappello per vendicarsi e punire l’ambulante. O come quegli imprenditori che si sono serviti del clan Mazzei come “agenzia di riscossione crediti” per i debiti non pagati dai clienti. O come il responsabile di una importante catena di supermercati che mise a disposizione la sua azienda della mafia del calatino in cambio di autorizzazioni edilizie, protezione e floridi affari.

Imprenditori, politici, manager con la fedina penale pulita, con amicizie altisonanti, con famiglie perfette, con mariti e mogli eleganti, frequentatori dei club service più in voga ma che non disdegnano di servirsi della mafia per portare avanti, in serenità, i loro affari. D’altronde “Catania è Catania, si sa come funziona!” dicono loro.

E per certi aspetti funziona proprio così Catania. La mafia da una parte, gli imprenditori dall’altra, quasi mai contaminati, quasi sempre amici.

E se le ditte della mafia hanno i certificati in regola, i prestanome ben coperti, i faccendieri con la faccia pulita, allora non c’è nemmeno il reato. Diventa tutto legale: ogni tanto qualche magistrato sequestra qualche ditta, arresta qualche boss, ma mai vengono toccati i clienti. Che reato avrebbero commesso? “Catania è Catania e si deve pur campare”.

Il sistema Ciancio

Pare che tutti i ricchi catanesi con la passione per gli affari abbiano, chiuso in un cassetto dello studio, un grande progetto edilizio. Un albergo, un porto turistico, un parco divertimenti, un centro commerciale, un campo da golf, una fitta schiera di eleganti villette. Ogni volta che un politico o un faccendiere bussa alla loro porta, per qualsivoglia motivo, dal cassetto escono planimetrie, relazioni tecniche, master plan, studi di fattibilità. Mancano sempre due cose: le autorizzazioni urbanistiche e i soldi.

“Io ho comprato quei terreni, ho fatto fare un grandioso progetto che potrebbe portare lavoro e progresso. Mi serve rendere quella zona edificabile e trovare un finanziatore” è il mantra da ripetere a ogni incontro.

Vorrebbero essere tutti come Mario Ciancio.

L’imprenditore più potente della città compra e vende terreni. Poi utilizza il suo giornale, unico quotidiano della città, per sponsorizzare la realizzazione del progetto. Poi usa il suo peso di imprenditore e editore per tirare i politici nel progetto. Infine ottiene la variante urbanistica e trasforma quei terreni in aree edificabili. E’ la foto scattata dai Ros dei Carabinieri nelle indagini sul PUA, il Piano Urbanistico Attuativo per la cementificazione del litorale sabbioso di Catania: ultima avventura speculativa di Mario Ciancio.

Ciancio di amici eccellenti, di ospiti illustri, ne accoglie tanti nel suo studio di viale Odorico da Pordenone. Il Sindaco, il procuratore, il Presidente della Regione, il capo dell’opposizione, il fascista, il sindacalista, i magistrati e i presidenti degli ordini professionali. Tutti lì, alla sua corte, con la scusa di un forum per il giornale o di un’intervista. E intanto si intrecciano interessi, relazioni, lusinghe, impegni: per il progresso ovviamente! Mai nulla di personale, si capisce. Intanto di progetti che escono dai cassetti di Ciancio ce ne sono sempre tanti.

Il processo per mafia

“Ci sarà pure un giudice a Berlino” gridava un umile mugnaio chiedendo giustizia per il mulino sottrattogli da un nobile signore, trovando la ragione, dopo anni, solo al cospetto di Federico il Grande. Ci sono dei giudici a Catania, diciamo noi, che hanno deciso di mettere sotto processo Mario Ciancio e con lui cinquant’anni di sistema economico, di relazioni con la mafia, di vita politica. Concorso esterno in associazione mafiosa con accuse che partono dall’estate del 1980, quando Nitto Santapaola fu arrestato per l’omicidio del Sindaco di Castelvetrano. Allora, secondo il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, i clan catanesi provarono a intercedere per la liberazione di Santapaola con i carabinieri trapanesi attraverso “Ciancio, imprenditore di Catania nel campo dell’editoria”.

Il processo a Mario Ciancio non sarà l’analisi giurisprudenziale su quanto sia lecito il lobbismo in terra di mafia, non sarà nemmeno la disamina di quanto il padrone de La Sicilia fosse consapevole di stare favorendo dei clan mafiosi. Sarà un processo ai meccanismi di potere che dominano Catania da sessant’anni. In aula andranno i silenzi, le censure, gli atti di sfida contro le istituzioni, gli inchini alla criminalità organizzata. Protagonista non sarà l’ottantaseienne Ciancio, che ormai, in vita, l’ha fatta franca, ma un’intera classe imprenditoriale che a Ciancio ha guardato con ammirazione e ha tentato di emularne il consociativismo, la spregiudicatezza, l’idea feudale secondo la quale le istituzioni devono mettersi al servizio del signore più potente.

Avvocati e magistrati diranno di fermarsi alle prove, ai capi d’imputazione, alla verità processuale.

Ma tremeranno lo stesso le stanze di Confindustria, i saloni di palazzo degli Elefanti, le redazioni dei giornali di famiglia, gli studi in radica dei padroni della città: davanti al giudice, il re è nudo.

Da isiciliani


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