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Conti, dame e Cavalieri di quel Santo Sepolcro

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di Salvatore Cusimano

Nel settembre del 2013, pochi mesi dopo la sua elezione al soglio di Pietro, papa Francesco Bergoglio incontra nell’aula Paolo VI in Vaticano le dame (in nero) e i Cavalieri (con mantello bianco con doppia croce rossa sovrapposta) dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme riuniti a Roma per la Consulta mondiale che si tiene ogni cinque anni.
Francesco ricorda alla platea il loro compito di “pellegrini” non “erranti”, l’obiettivo di Camminare, Costruire e Confessare in ogni momento del loro progetto associativo. E in conclusione il Pontefice non rinuncia a uno dei suoi ricorrenti leitmotiv “la fede non allontana dalla responsabilità per una società migliore”. Insomma la fede non può essere blandita come un privilegio, come una casta o una loggia al riparo della quale giocare la propria personale partita per il potere.
Sono passati trenta anni dagli anni più bui dell’Ordine in Sicilia e probabilmente nella sala Paolo VI non c’è più nessuno dei vecchi aderenti all’associazione nell’isola. Se ci fosse stato sarebbe stato percorso da un brivido tanto erano taglienti le parole del Papa seppure pronunciate con ferma pacatezza.
In Sicilia negli anni ’70 e ‘80 in realtà Dame e Cavalieri erano ben altra cosa. Ricordavano piuttosto una loggia o una stanza di compensazione in cui era possibile saldare relazioni interessate e dove la missione del “costruire” auspicata trenta anni dopo dal Papa innovatore era più diretta alle carriere e alle ambizioni spicciole che al bene più generale della comunità cristiana. Anche a costo di frequentazioni imbarazzanti.
Nel 1982/83, come testimonia nel suo gran libro “La Città marcia” Bianca Stancanelli, circolavano nelle redazioni dei giornali, non senza provocare pochi imbarazzi (anche fra i giornalisti, i direttori e gli editori), gli elenchi degli iscritti all’Ordine. Ovviamente liste ufficiali-non ufficiali che hanno consentito non poche prese di distanze e smentite.
In quel gruppo figuravano esponenti di spicco della borghesia palermitana e della provincia, giudici, procuratori della repubblica, superpoliziotti, ufficiali dell’esercito e delle forze armate, docenti dell’università, politici, amministratori comunali, banchieri, imprenditori.
Alla testa della robusta pattuglia che si riuniva per le celebrazioni esclusive nel più splendente dei duomi siciliani, quello di Monreale, c’erano l’aristocratico conte Arturo Cassina, “Luogotenente” dell’Ordine, regista più che trentennale degli appalti per la manutenzione al comune di Palermo e il vescovo di Monreale Salvatore Cassisa, a capo della diocesi più vasta dell’isola e personaggio fra i più discussi della Chiesa siciliana. I meno giovani ricorderanno che Cassisa fu allontanato a forza da una diocesi e una abitazione che non aveva alcun diritto di abitare dopo una estenuante battaglia e l’intervento senza precedenti della Congregazione per i Vescovi.
A far da scorta a Cassina e Cassisa comandanti dei carabinieri, giudici e “sbirri”. Negli stessi anni in cui l’offensiva mafiosa si faceva più clamorosa e morivano sotto i colpi delle cosche il prefetto Dalla Chiesa e Pio La Torre, sedevano fianco a fianco, sfiorandosi appena con i mantelli candidi, uomini di potere che volevano sfuggire a controlli e inchieste e alte magistratura che avrebbero dovuto indagare sul loro conto.
Non a caso l’ex sindaco di Palermo Insalaco, assassinato nel 1988 da Domenico Ganci, uno dei figli del boss della Noce Raffaele, nel suo memoriale puntava l’indice contro Cassina e non mancava occasione di sottolineare il “cerchio magico” che proteggeva il nobile imprenditore e nel quale in prima fila erano proprio appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura che di giorno militavano nei palazzi di giustizia e nelle caserme e nei fine settimana curavano poi relazioni improprie fra gli scranni del Duomo di Monreale, fra un bisbiglio e un’orazione.
Gli elenchi si possono ritrovare senza tanti sforzi con una breve navigazione in rete. Di certo fra loro anche tanti in buona fede. Ma resta sospetta la quantità di affiliazioni di personalità così autorevoli e prestigiose e potenti. Gli adepti avevano tutti un sogno da realizzare, il primo dei quali entrare nella stretta cerchia “degli uomini che contano”, uscire dalla stretta dimensione provinciale per assurgere a uno scenario nazionale o addirittura internazionale.
Giovanni Falcone che non parlava mai a sproposito ed era sempre controllatissimo, a Bianca Stancanelli consegna un ritratto al vetriolo dei Cavalieri Equestri “il vero potere in Sicilia” ben più potenti degli altri “cavalieri”, quelli “del lavoro catanesi” che un impero economico retto su vaste relazioni anche scottanti coltivavano in gran parte dell’isola e anche oltre lo Stretto.
Tuttavia nonostante i sospetti e gli articoli dei giornali Chiesa e Csm si guardarono bene dall’intervenire per sciogliere o commissariare quella che sempre più appariva come una tribù fondata sullo scambio, le minacce, le inchieste finalizzate a fiaccare i resistenti, la costruzione di ricchezze incommensurabili, il sostanziale mantenimento dello status quo.
Ci provarono dopo le stragi anche le vedove della mafia, Agnese Borsellino e dopo di lei Maria Falcone e Rita Bartoli Costa a invocare interventi drastici del Vaticano per un’azione energica di pulizia in quegli spazi plumbei in cui i mantelli con croci intrecciate non assicuravano trasparenza e rettitudine.
Negli anni ‘90 e Duemila, testimoni e collaboratori di giustizia sciorinarono ben altri nomi che transitavano senza esitazione alcuna dalle logge massoniche agli Ordini equestri, compreso quello del Santo Sepolcro. A Messina e in Calabria soprattutto.
Palermo cominciò a spegnersi o forse solo a rientrare nell’ombra per far dimenticare le voci, i sospetti e anche le inchieste che squassarono l’impero di Cassina e la diocesi di Cassisa.

Da mafie

 


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