Una minaccia di morte che è andata al di là della consueta barbarie, la pianificazione di un attentato ai suoi danni e la violenza inaccettabile di parole strazianti. Scrivo queste riflessioni all’indomani della notizia tremenda della condanna a morte che la mafia avrebbe pronunciato nei confronti di Paolo Borrometi, il nostro presidente ma, soprattutto, un ragazzo siciliano di poco più di trent’anni la cui unica colpa è quella di denunciare sistematicamente questo cancro, le sue collusioni e le sue ramificazioni, svolgendo nel modo più alto, nobile e costruttivo un mestiere messo in discussione dagli evidenti limiti di chi lo svolge e dal fiume di balle (dette anche “fake news”) che infesta non solo i social network ma ahinoi, va ammesso, anche buona parte delle varie testate.
Paolo lo conosco bene, ho avuto modo di toccare con mano la sua serietà, la sua professionalità e la sua passione civile, il suo costante impegno al servizio della verità è della giustizia, il suo spirito partigiano, la sua profondità d’animo e di pensiero. Conosco le sue difficoltà, le sue ansie e le sue paure; tuttavia, conosco anche il suo coraggio, la sua determinazione e la sua straordinaria professionalità e so che non si fermerà di fronte a niente, che continuerà a lottare, che non si arrenderà al cospetto di nessuna minaccia, che non smetterà mai di indagare, scrivere e illuminare questa piovra che sottrae risorse preziose, ruba il futuro a milioni di persone e impedisce la crescita del nostro Paese, avvelenandone la politica e inquinandone le istituzioni.
Scrivo queste righe per non tacere a mia volta. Perché troppo spesso abbiamo parlato, scritto e manifestato indignazione solo quando qualcuno dei nostri colleghi è stato ritrovato sull’asfalto o all’interno di una macchina con il corpo crivellato di colpi d’arma da fuoco. Solo di fronte alla morte abbiamo gridato, salvo poi tornare a tacere, a parlar d’altro, ad indignarci per cose stupide, per motivazioni risibili, per questioni che non possono nemmeno competere con il valore della legalità, della vita e della dignità umana, dimostrando purtroppo tutta la nostra ipocrisia.
Scrivo per Paolo perché non si senta solo, perché sappia che c’è e ci sarà sempre una comunità pronta a sostenerlo ma, più che mai, perché tanti altri giovani colleghi seguano il suo esempio e trovino la forza di gridare che “la mafia è una montagna di merda”, a quarant’anni dalle denunce e dalla tragica uccisione di Peppino Impastato. Le sue idee camminano sulle nostre gambe e Paolo ne è la dimostrazione.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21