di Rosario Giuè
Sono profondamente convinto che l’essere cristiani e l’essere Chiesa possa avere ancora senso ed essere vissuto in modo credibile nella società.
Francesco, il vescovo di Roma, è testimone umile e convinto di tutto ciò. E ciò vale anche per la questione mafiosa.
Ma per essere credibili su questo punto bisogna avere chiaro che il potere mafioso per affermarsi nella società ha bisogno di simboli, di alleanze e di silenzi. Ed è bene anche ribadire che la mafia non è solo quella delle “coppole”, come sembra rappresentata da una certa industria televisiva. Quando si parla di mafia si deve guardare alla mafia borghese, alle classi dirigenti del Paese: alla compenetrazione tra diversi interessi a livello, a partire proprio dalle classi dirigenti compreso l’ambito politico e massonico.
Le classi dirigenti di questo Paese da sempre hanno fatto a gara per cercare la benedizione religiosa, la legittimazione ecclesiastica. Giulio Andreotti era ben considerato in Vaticano. ai più alti livelli. Un presidente della Regione Sicilia, poi condannato, si recò a Siracusa per consacrare la Sicilia alla “Bedda Matri”. Nei piccoli centri o nei quartieri popolari il capo mafia, che fa parte della classe dirigente locale, è generoso nelle donazioni per restaurare gli edifici di culto o per preparare la festa patronale.
Ora i pezzi delle classi dirigenti colluse non possono mostrare apertamente il perseguimento del loro “particolare” costruito sulla violenza e la sopraffazione. Hanno bisogno di sentirsi ben visti, giustificati davanti al popolo. Le liturgie cattoliche, i simboli cristiani sono un grande palcoscenico di visibilità pubblica, direi unico.
Per molto tempo la Chiesa cattolica, con le dovute eccezioni, ha fatto finta di non vedere questo rapporto strumentale. Ha prevalso la “ragion di Chiesa”: ora a motivo del liberalismo, ora a motivo del pericolo comunista, ora a difesa dell’unità politica dei cattolici o, per ultimo, a difesa dei valori cattolici in campo bioetico. E così non si è stati capaci di smascherare i sepolcri imbiancati di uomini dello Stato che, dopo avere trattato con la mafia, andavano in chiesa a fare la comunione o a parlare in pubblici dibattiti del valore della dottrina sociale della Chiesa. Una classe dirigente che si è formata nelle scuole religiose cattoliche non ha trovato di meglio che mettere i propri talenti a servizio del “demone” del denaro e del potere mafioso, usando la religione come reliquia medievale, per salvarsi o per nascondere la cattiva coscienza. Chi aveva la responsabilità della profezia, purtroppo, aveva perso la voce!
Le processioni che si fermano davanti alle case dei boss, episodi rilanciati in modo eclatante dalle televisioni, sono una triste ma piccola punta di un iceberg. Recentemente si è visto, per esempio in Calabria, che il vescovo di Mileto è intervenuto sull’usanza poco evangelica in un piccolo centro di fare portare a spalla le sacre statue, il giorno di Pasqua, alle famiglie vincitrici di un’apposita asta ben orientata dalla mafia locale.
Ma quella vicenda è poco cosa.
L’uso privato e distorto dei simboli religiosi va cercato prima di tutto tra le classi dirigenti del Paese, che non hanno mancato occasione per esibire il loro essere stati scout o l’essere devoti alla tale Madonna. Più preoccupante è che le classi dirigenti legati al potere mafioso non vogliano rinunciare ai simboli religiosi. Sanno che il linguaggio rituale parla al popolo semplice, se manca una mediazione critica. E fanno il loro bel gioco nell’apparire! Pezzi delle classi dirigenti del Paese, amici degli amici, si sono fregiati del titolo di “cattolico” senza che, da parte ecclesiale, si facesse tanto chiasso.
Ora, se non si parte dalle scelte dei vertici della Chiesa italiana, sarà più difficile poi richiamare alla loro responsabilità le diocesi. Se non si auto-analizzano le scelte “politiche” della Conferenza Episcopale, sarà più difficile chiedere al solitario parroco d’impegnarsi e, comunque, sarà più complicato lavorare per il cambiamento e la liberazione dal potere mafioso in Italia.