Di Claudio Fava
Esiste un luogo d’Italia dove la trattativa fra Stato e mafia non è un topos letterario né un teorema giudiziario ma una realtà, un fatto acquisito, quasi un pezzo del panorama che nessuno ha mai messo in discussione. Quella città è Catania.
Mentre altrove Cosa Nostra si industriava per ottenere una legittimazione, a Catania le famiglie mafiose facevano parte stabilmente dell’organigramma ufficiale del potere accanto a chi conta e a chi comanda. A Palermo la mafia ammazzava, a Catania governava.
Stato e mafia a Catania hanno trattato, condiviso, spartito ogni funzione pubblica e privata fin dall’inizio degli Anni Settanta. Accadde quando ci si rese conto che Cosa Nostra era uno strumento affidabile e perfino moderno per fabbricare carriere politiche, proteggere cantieri, accompagnare imprese all’assalto degli appalti, garantire la sicurezza della città, sorvegliare l’andamento dei processi, fungere da efficacissimo deterrente contro il racket dei sequestri, bonificare il territorio da possibili infiltrazioni terroristiche..
La mafia era uno governo parallelo delle cose e dei destini, un’idea di normalità accettata, voluta, perfino sollecitata anzitutto da chi alla mafia avrebbe voluto muovere guerra.
Sono gli anni sfacciati in cui le sentenze di Corte d’Assise vengono decise i tavoli da poker fra giudici, avvocati e giornalisti. Sono gli anni funesti in cui il capo della mafia catanese, Nitto Santapaola, viene accompagnato nelle sue trasferte da latitante da una staffetta dei carabinieri che serve a prevenire posti di blocco ed altre camurrie.
Sono gli anni goliardici in cui ci si ritrova tutti, tra i cascami di un pomeriggio avvinazzato ad una festa di nozze, in posa davanti al fotografo: deputati, sottosegretari, presidenti, sindaci, arcivescovi, questori… e al centro della foto, come un silenzioso padreterno che dispensa amicizia e benedizioni, lui, Santapaola, l’ineffabile sovrano di Cosa Nostra.
Sono gli anni spietati in cui si crepa a tredici anni per avere scippato la borsetta sbagliata. Sono gli anni impuniti in cui il capo della squadra mobile scrive assieme i capi banda locali l’elenco di quelli da arrestare e di quelli da lasciare in pace: questo sì, questo no, questo vediamo…
La trattativa, senza scomodare le stanze del governo, c’era già stata. Non aveva avuto bisogno di papelli o di altre liturgie: era bastato guardarsi e capirsi. Cosa Nostra (i Santapaola, gli Ercolano, i Ferrera…) garantivano ordine, pace sociale, cantieri sicuri, corsie preferenziali per gli appalti su tutta la Sicilia e pacchetti di voti inossidabili per Palermo o per Roma.
In cambio lo Stato e la società civile (questura, prefettura, giornali locali, palazzo di giustizia, carabinieri, opinion makers, università…) facevano finta che don Nitto fosse davvero uno squisito e innocuo commensale, un contributo alla crescita in apnea di Catania, la Milano del sud, con il suo skyline di cantieri e di grattacieli come se non fossimo in fondo alla Sicilia ma in cima a Manhattan.
Sindrome Sicilia, scriveva nel 1983 la rivista “I Siciliani” per la penna di Giuseppe Fava, “…Quel tale stato d’animo per il quale ovunque in Italia il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i Cavalieri del Lavoro che hanno fatto impazzire mafiologi ed economisti di mezza Europa, che gestiscono ognuno centinaia di miliardi, che costruiscono in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di aver organizzato e personalmente eseguito con un kalashnikov l’assassinio del generale Dalla Chiesa. E’ catanese la Procura generale sottoposta a inchiesta del consiglio superiore della magistratura per accertare se clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose abbiano subito colpevoli ritardi o siano state addirittura imboscate. Tutto sommato è anche questo giornale…”.
Sono passati trentacinque anni. La sensazione è che gli esiti di quella trattativa siano ancora ben piantati nel destino della città. Identici i nomi delle famiglie mafiose che governano. Identiche le carriere e i denari. Identici i nomi dei padroni che fingono di non capire, di non sapere mai. Identici i silenzi di chi volge lo sguardo altrove.