Se internet finisce nella sua stessa rete

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Era già tutto previsto. Bastava leggere l‘introduzione dell‘ex garante per la privacy Stefano Rodotà a “Internet, i nostri diritti”, il manuale pubblicato nel 2016 da Editori Laterza per divulgare la “Dichiarazione dei diritti in Internet“ votata e approvata a Montecitorio con una mozione all‘unanimità il 3 novembre 2015, poi lasciata cadere nel dimenticatoio dal governo che avrebbe dovuto adottarla.

Internet non è un luogo vuoto di regole, ha spiegato Rodotà. Al contrario, è un luogo sempre più regolato da Stati invadenti e imprese prepotenti. Quindi serve un rafforzamento istituzionale della libertà in questa nuova dimensione che riguarda la nostra cittadinanza sulle piattaforme digitali. Che siano Facebook o Google, Apple o Microsoft, Amazon o Ebay: quei nuovi «signori dell’informazione» che, attraverso gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite.

Di una Costituzione per Internet si discuteva da oltre dieci anni in tutto il mondo, ma l’idea di una Carta dei diritti digitali, denominata Internet Bill of Rights ispirandosi alla dichiarazione sui diritti umani stilata dal Parlamento britannico nel 1689, fu proposta da Rodotà nel 2005 all’Internet Governance Forum di Tunisi, quando nell’era dei blog incominciava ad emergere il bisogno di proteggere i diritti umani dei cittadini del cyberspazio. Perché il diritto a Internet afferma una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve essere una precondizione della cittadinanza. E della stessa democrazia.

La Dichiarazione dei diritti in Internet, presentata all‘Internet Governance Forum voluto dalle Nazioni Unite a Joao Pessoa (Brasile) nel novembre 2015, ha ricevuto il plauso della Web Foundation di Tim Berners Lee, l‘ingegnere del Cern che ha inventato il Web a Ginevra eche vorrebbe una simile Carta estesa e adottata in tutto il mondo. Impresa titanica, quella di mettere d‘accordo i governi a livello globale: basta vedere le difficoltà dell‘Onu in politica estera. Ma un quadro di regole universali per la sfera digitale della nostra vita è un obiettivo da raggiungere fondamentale, come lo è stato nel 1948 per la Dichiarazione universale dei diritti umani. Questo non significa purtroppo che poi non ci siano violazioni di diritti: ma per poterle denunciare, serve averli ben chiari, questi diritti, e che siano riconosciuti da tutti.

Nel 1996, all‘alba del Web, per l‘autore della Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio John Perry Barlow Internet non aveva un sovrano: era il più grande spazio pubblico che l’umanità avesse mai conosciuto. Ma 22 anni dopo, nell’era in cui il recinto proprietario di Facebook prevale sul libero Web, si incomincia finalmente a capire la necessità di istituire garanzie costituzionali per i diritti nella Rete globale in cui tutti devono avere la possibilità di parità di accesso con modalità tecnologicamente avanzate per poter essere cittadini digitali.

C‘è chi scommette sul tramonto di Facebook in favore di nuove piattaforme che sicuramente emergeranno, come già è successo nella storia di Internet con altri giganti dell‘economia digitale. Ma gli utenti devono tornare ad avere il coltello dalla parte del manico e per questo è necessario che siano alfabetizzati. Berners Lee ha lanciato un richiamo preciso ai cittadini online per una maggiore consapevolezza: partecipate, il consenso a cedere i propri dati deve essere davvero informato. Battetevi per la neutralità della Rete, per salvaguardare uno spazio che deve essere pubblico e non privato, chiedete alle multinazionali e ai governi che vi rappresentano di rispettare e difendere i diritti sui vostri dati, esigete trasparenza, fate sapere che vi importa. Internet è un patrimonio di tutti.

Fonte: Riforma.it

* giornalista e garante dei lettori per la Stampa e direttrice del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca”; Circolo Articolo 21 Piemonte

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