Metti una sera a Roma, al Teatro Italia di via Bari, là dove il 2 dicembre 2016 la redazione del Fatto Quotidiano aveva organzzato una serata evento per spiegare al meglio le ragioni del NO al referendum costituzionale.
Metti un mattatore del calibro di Andrea Scanzi, il cui saggio, “Renzusconi”, ha venduto una quantità di copie che è andata al di là delle sue più rosee aspettative, al pari dello spettacolo teatrale, per cui l’autore prevedeva tre-quattro repliche e giunto invece oltre le venti, a dimostrazione non solo dell’affetto che egli suscita presso il pubblico ma anche dello sconfinato desiderio di buona politica che pulsa nelle vene di una certa parte della società.
Memoria e appartenenza: queste sono le due parole che ricorrono più di frequente nella prosa e nella narrazione teatrale di Scanzi, mescolando i grandi cantautori che costituiscono il suo bagaglio culturale e la sua cifra esistenziale con una passione politica che, per quanto sgualcita e resa flebile dalle tante, troppe delusioni patite negli anni, rimane comunque forte, come testimonia l’impegno civile che egli mette nel suo spettacolo e nel suo tentativo di creare un rapporto quasi simbiotico con la platea.
Già, l’appartenenza: quel valore straordinario che caratterizzava i padri del dopoguerra, quel valore a lungo difeso nei primi quarant’anni della storia repubblicana, quel valore che, dopo la caduta del Muro di Berlino, è andato via via smarrendosi, fino ad arrivare alla vergogna di questa campagna elettorale senza passione, senza storia, senza nemmeno i manifesti affissi sulle plance, senza partiti veri e credibili, senza nessuno o quasi che ci mettesse un po’ d’anima, di cuore, che si prendesse la briga di restituire speranze e prospettive a una cittadinanza delusa e scossa da quanto è avvenuto negli ultimi dieci anni.
E poi direi che c’è un altro filo rosso che lega lo spettacolo di Scanzi, le sue opere in generale e il suo modo di essere cittadino e giornalista: è l’indignazione, quella sacra virtù repubblicana che sta purtroppo svanendo, travolta dall’acquiescenza, dalla supina accettazione dello stato delle cose o, peggio ancora, specie nel caso di alcuni intellettuali di sinistra, o sedicenti tali, che un tempo anch’io consideravo dei punti di riferimento, dal tifo che acceca e impedisce di vedere il marcio dove c’è, per il semplice motivo che le stesse azioni che non si perdonavano a Berlusconi a Renzi devono essere perdonate tacendo, altrimenti arrivano i populisti, le cavallette e via sparando fesserie.
Come si è visto a Roma, a Torino, nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ma direi anche alle Regionali del 2015, che il Partito Democratico vinse male, scontando la sconfitta della Paita in Liguria, questa propaganda terroristica non funziona più; anzi, sortisce l’effetto opposto. E allora è bene prendere l’abitudine di pensare, di esercitare il proprio spirito critico, di tornare a sentirsi e ad essere una comunità, di coltivare l’arte ingraiana del dubbio, di mettere in discussione chiunque, senza presunzione e senza commettere l’errore di non riconoscere le competenze di chi ne sa di più in un determinato settore ma senza nemmeno scadere, al contrario, nell’ipse dixit; bisogna tornare a far politica e ad occuparsi di giornalismo con la Costituzione in mano o, comunque, ben in vista sulla scrivania; bisogna pretendere che i giornalisti siano giornalisti e non propagandisti di questa o quella fazione; bisogna esercitare al massimo livello l’onestà intellettuale e pretendere un minimo di coerenza da chiunque si occupi della cosa pubblica, senza torquemadismi di sorta ma senza neanche la costante rassegnazione a quell’altra fesseria del meno peggio; bisogna, infine, a tal proposito, ricordarsi di ciò che asseriva Paolo Sylos Labini, ossia che il meno peggio è sempre il preludio al peggio del peggio.
Andrea Scanzi, ieri sera, in pratica ci ha detto questo. Ha ricordato Stefano Rodotà e ci ha chiesto di non vergognarci di essere persone perbene e di volere figure come Rodotà alla guida delle istituzioni, in quanto a vergognarsi devono essere i farabutti e non chi ha a cuore il bene comune.
Ha colmato, almeno in parte, il senso di solitudine e spaesamento in cui si dibatte da anni chi, come il sottoscritto, ha amato e ama la politica, ha creduto in un partito e lo ha visto trasformarsi in un qualcosa di invotabile, crede ancora nella sinistra ma non ne trova abbastanza e, quando pure la trova, la considera troppo politicista e con poco slancio e ancora meno ambizione. A mio giudizio, Scanzi piace perché getta lì il seme di un’opinione e lascia che ognuno lo faccia germogliare dentro di sé come meglio crede. Gaberianamente, senza pretendere o imporre nulla a nessuno.
Il suo “Renzusconi”, pertanto, è un viaggio negli ultimi cinque anni: sbagliati, confusi, maledetti, sospesi tra la fine di una stagione e l’inizio del buio, del nulla, di un’assenza che pesa e si fa sentire ogni giorno di più. Eppure si va avanti, in direzione ostinata e contraria, si va a votare perché è un diritto e un dovere, si crede ancora in qualcosa e ogni tanto si va teatro per non sentirsi soli. Anche a questo servono gli intellettuali; o almeno servirebbero, visto che sono rimasti veramente in pochi.
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