BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Quando il succhiasangue è straniero

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di Marco Omizzolo

Quando si parla di mafie in Italia vengono subito in mente i nomi delle principali famiglie criminali o di clan efferati: Riina, Badalamenti, Cava, Schiavone, Rinzivillo, Strangio, Arena e poi clan dei Casalesi, di ‘Ndrangheta, di camorra e di altre mafie.
Ma non tutte le mafie sono note e non tutte sono italiane. Esistono mafie straniere che in Italia gestiscono affari milionari, in alcuni casi con l’ausilio e sotto la podestà di clan italiani.
Alcune di queste battono bandiera straniera ma non sono d’importazione. Sono nate nel nostro Paese attraverso prassi, consuetudini, metodologie d’azione consolidate che nel lungo periodo hanno generato organizzazioni sostenute da interessi economici criminali dentro un’economia che comprende tutti i portatori di denaro, senza mai interrogarsi sulla loro origine, obiettivi e modalità operative.
La loro primaria collocazione è proprio nella filiera agricola nazionale. Esse gestiscono la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, l’intermediazione illecita (caporalato) e una serie di “servizi” non secondari come il racket interno alla propria comunità di appartenenza, usura, rinnovo dei documenti normativamente previsti (si ricorda il caso di un bracciante indiano nel Pontino che per avere la carta di identità si è rivolto ad un boss suo connazionale che si è fatto pagare 1.000 euro), superamento delle vertenze con il datore di lavoro, spaccio di sostanze stupefacenti, in alcuni casi connesso allo sfruttamento nei campi agricoli come nel caso della comunità indiana pontina – come denunciato dal dossier “Doparsi” per lavorare come schiavi di “In Migrazione,” – gestione illegale delle abitazioni e dei servizi connessi.
Alcune operazioni delle forze dell’ordine hanno messo in evidenza questo fenomeno. Un imprenditore di origini bangladesi è stato condannato dal Tribunale di Napoli nel luglio del 2017 a 8 anni con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al grave sfruttamento lavorativo e al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con l’aggravante del reato transnazionale.
L’imprenditore sfruttava venti lavoratori migranti pagandoli 250 euro al mese, facendoli lavorare dodici ore al giorno dopo aver ritirato loro i passaporti e minacciato ritorsioni sui loro familiari in Bangladesh. Ad un imprenditore agricolo di Paternò, in Sicilia, invece, sono stati sequestrati beni per 10 milioni di euro dalla Direzione investigativa antimafia di Catania per aver reclutato manodopera romena a basso costo da impiegare nelle campagne del catanese attraverso un’associazione operante fra Paternò e la Romania.
Ogni mafia straniera, secondo la Procura Nazionale Antimafia e le varie Direzioni distrettuali antimafia, ha specifiche caratteristiche connesse agli ambiti culturali di provenienza.
La mafia nigeriana è specializzata nella tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. Quella russa ricicla denaro sporco e investe in immobili e in finanza. Quella cinese nel riciclo di denaro illecito, nell’impiego di loro connazionali in occupazioni senza regolare contratto e nella tratta. Quella indiana è in corso in formazione soprattutto in provincia di Latina ed è in grado di reclutare in Punjab, regione nord occidentale dell’India dalla quale proviene gran parte della relativa comunità pontina, mediante una relazione diretta e interessata con alcuni imprenditori agricoli locali, connazionali ai quali viene promesso di arrivare regolarmente in Italia e un lavoro nelle aziende agricole locali.
Si tratta di false promesse per le quali il migrante indiano è disposto a pagare, spesso indebitandosi, anche 10mila o 15mila euro, per ritrovarsi nelle campagne pontine alle dipendenze del padrone italiano a volte per 200-300 euro la mese.
Un sistema rodato e organizzato che in origine prevedeva addirittura la collaborazione con la mafia russa, la quale si preoccupava di trasportare i migranti indiani facendogli attraversare gli Urali su auto o piccoli furgoni in condizioni terribili in cambio, ancora una volta, di denaro contante.
È dentro questo sistema che caporali, sfruttatori e trafficanti stranieri, col tempo e attraverso la migliore organizzazione delle loro attività, diventano nuovi boss, attori protagonisti di un nuovo agire mafioso che trova proprio in agricoltura la sua cornice perfetta sebbene non l’unica.
Già nel 2008, con l’“operazione Viola”, risultò la penetrazione e strutturazione della criminalità nigeriana in Italia nella gestione di un traffico di esseri umani che in Nigeria reclutava manovalanza a bassissimo costo per le imprese edili italiane e, nel contempo, reclutava donne nigeriana che obbligava con violenza alla prostituzione.
Ancora ad ottobre del 2017 i carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Taranto, della Compagnia di Castellaneta e della stazione di Marina di Ginosa, hanno dato esecuzione a due provvedimenti cautelari in carcere nei confronti di un italiano di Ginosa Marina e di un romeno, considerati responsabili, a vario titolo, di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento del lavoro nell’ipotesi aggravata, estorsione, furto aggravato, lesioni personali, tentata violenza privata in concorso.
Sono stati anche deferiti in stato di libertà altri tre romeni accusati di avere, insieme all’italiano arrestato, provocato lesioni ad un loro connazionale durante una “spedizione punitiva” dopo la segnalazione da lui fatta alla polizia sulle irregolarità e i soprusi subiti.
In provincia di Latina esistono invece squadristi indiani assoldati dal boss indiano per intimidire, spesso con atti di grande violenza e sempre pubblici, coloro che osano contestarne l’autorità o intralciarne gli affari. È accaduto ad Ardea, vicino Roma, e a Pontinia, a Latina, durante alcune manifestazioni tradizionali della comunità punjabi. Circa trenta indiani hanno infatti assaltato gli organizzatori con bastoni e spranghe con lo scopo di dare loro una lezione, tanto da mandarne alcuni in ospedale e ricordare a tutta la comunità chi detiene il potere e cosa è capace di fare.
Ad agosto del 2017 un importante blitz dei carabinieri è scattato nelle campagne fra Monreale e Camporeale, in provincia di Palermo, area dove nulla si muove o si raccoglie senza il consenso dei clan, nelle quali giovani ghanesi, gambiani, eritrei, ivoriani erano impiegati nella vendemmia per il migliore vino siciliano anche per quattordici ore al giorno per  20-30 euro. Dalle vigne del palermitano a quelle di Mazara la situazione non cambia. Nei campi di Gibellina si coltivano i meloni, nelle serre del ragusano i pomodorini, nei terreni dell’agrigentino invece le pesche ma ovunque il sistema di reclutamento internazionale e impiego risulta gestito da consorterie criminali straniere che forniscono manodopera a bassissimo costo alle aziende locali, spesso con il consenso dei boss italiani.
Nelle campagne di Vittoria, in Sicilia, numerose donne romene vengono reclutate nel loro paese d’origine probabilmente anche sulla base della loro bellezza ed età da clan romeni.  Per essere sfruttate nelle campagne siciliane da caporali italiani e stranieri insieme a imprenditori italiani che su di esse praticano, al termine della giornata di lavoro, ricatti e violenze sessuali.
Le mafie straniere, dunque, sono un altro capitolo delle agromafie italiane sulle quali poco si ragiona e meno si agisce. Un errore grave che rischia di farci ritrovare, tra non molto tempo, con interi territori e settori economici gestiti da nuove mafie non meno efferate di quelle italiane, con collegamenti internazionali e in mano centinaia di migliaia di persone e milioni di euro.

( 2 – continua)

Da mafie


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