Un giornalismo serio e coscienzioso si occupa di illuminare le periferie ricoperte di putrido malaffare, ma anche di illuminare quel cittadino investito di frustrazioni per ridargli quella dignità che la Costituzione prima di noi stessi gli ha concesso. Bisogna svestire l’immagine del giornalista con la giacca a vento e il taccuino in mano a caccia di misteri e scoop per riportarlo giù, in basso, dove tutto si forma. A parte la meritevole sezione di inchiesta, ci fosse una rubrica che parla o scrive di socialità, di quei problemi che affliggono le persone comuni, le stesse che dalla festa dell’Unità oggi sono andate a votare Salvini. Nessuna sorpresa, tutto ampiamente preventivato. I temi caldi fanno rima con immigrazione, fascismo, razzismo, diritti umani, legalità e lotta alla mafia, poi c’è chi spazia sugli esteri da Trump alla due Coree passando per la Turchia e la Siria, qualche guerra civile sparsa qua e là, chi invece si sofferma sulla cronaca, sulle pensioni e sulla parità di genere (soprattutto a marzo, guarda caso), tralasciando del tutto il tema caldo per eccellenza: il lavoro.
E’ meglio cercare una soluzione ad un problema oppure evitare di parlarne in attesa che quel problema si moltiplichi, che quel problema sociale e comune diventi un disturbo psicologico? Ecco che un disagio intimo e soggettivo va a mischiarsi con gli altri nella cesta dei cliché, smettendo di assumere una qualche valenza sociale, un comportamento che è allarme e conseguenza si trasforma in routine e passa di fatto inosservato.
Nei primi anni dopo l’inizio della crisi economica c’erano stormi di cronisti all’entrata dell’Inps e dei centri per l’impiego con l’obiettivo di testimoniare la situazione nelle nuovissime trasmissioni, me li ricordo ancora i negoziati della polizia per far scendere operai che in modo del tutto disperato si arrampicavano sulle gru degli edifici in costruzione e minacciavano di lanciarsi nel vuoto pur di ricevere in cambio dall’azienda o dallo Stato garanzie e proroghe sui loro contratti in scadenza. Me le ricordo tutte le promesse della politica dopo un suicidio o una tragedia omicida che aveva trascinato nel baratro intere famiglie per colpa della mancanza del lavoro, le belle parole istituzionali trainate da una Costituzione fondata proprio su quell’impiego che ti fornisce ruolo ed etichetta per essere un cittadino libero. Di nessuna consolazione o ausilio erano e continuano ad essere quelle leggi culminate più di recente nel Jobs Act e nella speranza del reddito di cittadinanza che ha fatto balzare in avanti Di Maio con tutto l’entourage. Tutte quelle politiche in favore dell’occupazione e dell’imprenditorialità, tutti quei bandi e quei programmi messi appunto dai Ministeri competenti per favorire la crescita delle imprese e scoraggiare la disoccupazione di fasce deboli della società quali donne e giovani. Da noi in Italia senza esserci vera ricchezza si corre al Nord, si corre al Sud e si rimane al Centro, spiazzati da leggi del tutto inadeguate.
Ma cosa significa realmente perdere o non trovare un lavoro?
Quando si legge che a gennaio 2018 l’Istat ha registrato un tasso di disoccupazione dell’11,1% viene da chiedersi se sarà questa la statistica su cui i prossimi luminari si flagelleranno per trovare una soluzione concreta al problema, se era questa la previsione che un Berlusconi prima e un Renzi dopo aveva messo in conto per decidere che in un certo lasso di tempo avrebbero lavorato tutti e nessuno, razionando a turno cibo, bollette, affitto, scuola dei figli, benzina alla macchina, il tempo sufficiente per riempire la casella mancante neanche stessimo giocando ai quattro cantoni.
E nel frattempo che fai? E’ lontano il tempo in cui si riusciva a mettere da parte i risparmi in vista di momenti di crisi, perché c’è sempre un imprevisto che ti riporta alla realtà: un tubo in bagno che si rompe, il figlio a cui devi finire di pagare le spese dal dentista, la macchina che si ferma d’un tratto in mezzo alla strada, il padrone di casa che non è accomodante come credevi quando gli chiedi una dilazione sull’affitto, i soldi che non bastano per fare la spesa. E non che vivere da soli o con altri inquilini per dividere le spese, o essere costretti a chiedere aiuto ai genitori magari dopo anni in cui ci si era costruiti una certa indipendenza, vada meglio. La mancanza del lavoro in un Paese come l’Italia che non garantisce come venti o trent’anni fa un’offerta proporzionata alla domanda e contratti che non vadano a ledere la dignità del lavoratore, anche se previsto, fanno sì che diventi un fatto che porta con sé delle conseguenze spesso gravi che non solo si ripercuotono sugli standard di vita e sulla propria economia, essendo costretti a rivedere le proprie abitudini (togli le voci svago e superfluo dalla lista con un non so ché di pragmatico), ma anche sulle relazioni e sul proprio equilibrio psicologico. Sia non ritrovare il lavoro perduto che cercarne uno in lungo e in largo senza molo esito porta frustrazione, rabbia e stanchezza. Migliaia di curricula spediti, inviati e portati a mano ogni giorno: dall’altra parte, in assenza di regole o educazione, poche risposte se non nessuna.
Mostrarsi sempre disponibili, ottimisti e vogliosi di apprendere, qualunque posto di lavoro scelto per necessità diventerà nell’immediato la nostra più grande aspirazione, risponderemo con sicurezza al selezionatore che sì, la nostra vocazione è quella di sposare in ogni punto la mission dell’azienda, che se non ci avessero licenziati ci saremmo licenziati da soli pur di stargli lì davanti a giurare fedeltà eterna (sperando che si sbrighi a prendere una decisione perché se perdo l’ultimo treno dormo in stazione pure questa notte). Il mercato costringe a reinventarsi e a farlo rapidamente, senza alcuna attenzione alla persona che sei né alla laurea in materie umanistiche, il corso di specializzazione, il master, non importa ed è così che la storica dell’arte finisce a dare ripetizioni in nero al bambino delle elementari, l’architetto quarantenne si apre senza commissioni un mercatino dell’usato nell’androne del palazzo in cui vive, la bibliotecaria resta al bar a fare cappuccini, il giornalista freelance scrive per visibilità senza essere pagato perché ha scoperto che sul web ci sono dei siti legali in cui il suo lavoro viene sporcato e svenduto a un paio d’euro ad articolo ma lui si ostina a voler fare quello di mestiere anche se l’Ordine di categoria non sembra molto propenso a venirgli incontro, amarezza condivisa dalla correttrice di bozze che ha preso un impegno con una casa editrice che la fa lavorare per pochi centesimi a cartella.
Il problema è proprio essere qualcuno al di fuori delle aspettative, mostrare soddisfazione per le proprie competenze senza che ci sia qualcuno disposto a riconoscerne il valore. La società ti mette nella condizione negativa di avere sempre bisogno di qualcuno, così dopo migliaia di tentativi alla fine anche tutte le certezze vacillano e sarà sempre più facile sentirsi etichettati da chi ti ritiene un peso senza arginare il rischio di diventare come una moka in disuso: inutile. Se poi gli input esterni non sono energici, se le persone rimaste accanto non sanno o non vogliono comprendere quanto sia negativa una tale condizione, allora sarà immediata la disfatta e chi si sente inutile non avrà altra valvola di sfogo se non quella di compatirsi, di fatto smettendo di cercare lavoro e soluzioni.
Purtroppo si sa che nel nostro Paese ci si tirano su le maniche solo quando è troppo tardi per intervenire, solo quando si raschia il fondo. Ma non sarebbe meglio illuminare sempre questo fondo in modo da eliminare fin da subito la voglia di arrendersi?