C’è la giovane Laura di vent’anni con due bambini piccoli che viene colpita con 16 coltellate dal compagno Paolo Cugno prima di essere gettata in un pozzo nel siracusano, e poi c’è Imma, fermata fuori dalla scuola dove aveva accompagnato la figlia e giustiziata con un colpo alla testa dall’ex marito, Pasquale Vitiello. Due femminicidi avvenuti a poca distanza di tempo che si vanno a sommare alle tragedie di queste ultime settimane: quella di Cisterna di Latina, dove due bambine sono state assassinate dal padre per vendetta sulla moglie che cercava di sottrarsi alla violenza dell’ex marito, quella di Foggia dove Federica Ventura a 40 anni è stata colpita da dieci coltellate dal marito Ferdinando Carella, o ancora quella di Livorno dove Francesca Citi, 45 anni e madre di due bambini, è stata uccisa con un fendente alla gola dall’ex marito, Massimiliano Bagnoli, che era stato non solo denunciato ma anche allontanato da casa.
Donne che hanno pagato con la loro vita e la vita dei loro figli, uccisi o rimasti orfani, il desiderio di avere una vita libera dalla violenza, nel tentativo di sottrarsi al controllo di un partner o un ex che non ha lasciato loro via di scampo, e che pur di ripristinare il loro potere decisionale hanno deciso di uccidere. Donne il cui assassinio viene ancora banalmente descritto come causato dalla gelosia, da un gesto sconsiderato, da un raptus frutto di un momento, e agito da parte di uomini in buona fede, spaventati, delusi, afflitti. Morti violentissime sezionate di volta in volta sui media e dipinte come fossero puntate di una lunga e interminabile fiction fino a quando tutti noi non ci saremo assuefatti e rassegnati.
Le donne uccise con movente di genere dall’inizio dell’anno in Italia sono circa 20, e sono tremila quelle uccise dal 2000 a oggi: questo in un generale calo, secondo il Viminale, per cui qui le uniche vittime di omicidio volontario in aumento sarebbero le donne, uccisioni che all’81% avvengono nell’ambito familiare. Un aumento dovuto non solo all’inefficienza della protezione da parte delle istituzioni ma anche all’impunità e alla libertà d’azione di cui gli offender continuano a godere nella massiccia sottovalutazione della violenza domestica che viene ancora e sempre scambiata come una semplice conflittualità tra coniugi che litigano, come è normale che sia, per gelosia, per disaccordi, per scaramucce, per i figli.
Ma la gelosia non può provocare una donna uccisa ogni 60 ore? Può essere un movente credibile per una mattanza?
Come spiega DiRe (Donne in rete contro la violenza) “il 70% delle donne vittime di femminicidio aveva già denunciato il proprio aggressore, ma questo non è bastato a salvarla: perché la sua parola era stata valutata in modo isolato, decontestualizzato, parcellizzato”. E perché allora la parola di una donna che chiede aiuto, che denuncia una violenza, che cerca di separarsi dal proprio aguzzino e fa di tutto per proteggere i propri figli, non viene ascoltata e protetta in maniera adeguata?
Una risposta evidente a queste domande l’ha data in questi giorni il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, che ha definito il femminicidio di Laura Petrolito un “delitto avvenuto nell’ambito di un rapporto travagliato, contrassegnato da tempo da litigi e da un tasso di gelosia elevato”, anzi “un caso di violenza progressiva, di una progressione della violenza”. Parole che sembrano prive di senso e a dire il vero gravi in bocca a un procuratore che pur riconoscendo la situazione di violenza domestica (“violenza progressiva”) non ne scorge il reale peso, anzi lo mette lì come se fosse un fattore normale in un “rapporto travagliato” tanto da non costituire il vero movente del femminicidio che invece viene indicato nella gelosia in un crimine agito, sempre secondo il procuratore, senza premeditazione: “un classico delitto d’impeto” dovuto “ai fantasmi della gelosia”. Un’attenuante, quella del raptus dovuto alla gelosia, ripetuta più volte dall’assassino e sostenuta in conferenza stampa dalla procura, e questo malgrado il padre di Laura abbia parlato a chiare lettere della violenza di Paolo Cugno: “Lui era violento – ha riferito – e assistenti sociali e forze dell’ordine sapevano”. Tesi sostenuta anche dalla zia della vittima che ha raccontato come la nipote fosse stata picchiata dal compagno più volte, e dalle stesse amiche di Laura. Un uomo che tre anni fa aveva colpito un diciannovenne con una motosega, giovane uscito indenne per miracolo con lievi ferite.
Come fa notare Daniela La Runa, presidente della Rete dei Centri Antiviolenza di Siracusa, quella del raptus è una giustificazione che non ha senso soprattutto in una situazione di violenza all’interno di relazioni intime, così come la gelosia che non è un movente: “Un uomo che accoltella la compagna – dice La Runa – la butta in un pozzo e ne occulta il cadavere vi sembra in preda a un raptus di gelosia? Cosa vogliamo fare, parlare di delitto passionale e giustificare il delitto d’onore?”.
Il vero movente di questi femminicidi è infatti non la gelosia ma una volontà di controllo totale e di pieno esercizio del potere maschile che deflagra quando la donna tenta di sottrarsi a una situazione che alle volte sfiora la tortura, una violenza che scaturisce sempre dall’incapacità maschile di tollerare l’autonomia e la libertà di decidere delle donne che vogliono sottrarre alla vessazione se stesse e i figli o le figlie. Delitti che nella quasi totalità sono premeditati e agiti come ultimo atto, l’ultima parola, nel ripristino di un potere messo in discussione.
Come il caso di Imma Villani, che il marito lo aveva denunciato per maltrattamenti dopo essere tornata a vivere dal padre con la figlia di 9 anni per sottrarsi alla violenza dell’uomo, che invece l’ha freddata con un colpo alla testa davanti la scuola della figlia per poi suicidarsi, a Terzigno, vicino Napoli. Un atto criminoso premeditato e preparato come dimostrano le lettere lasciate dall’uomo in cui scrive alla figlia: “La separazione fa soffrire, non si può accettare (…). Vivo un’ingiustizia e questo mi fa stare male perché voglio molto bene a tua madre. Ho subito un torto, non mi resta che fare giustizia da solo”. Come se in una separazione, oltretutto consensuale, fare giustizia significasse uccidere. Più o meno come nel caso di Citerna di Latina, dove Luigi Capasso lascia diverse lettere e addirittura i soldi per il funerale della famiglia che si appresta a uccidere, e in cui le missive non solo dimostrano la chiara premeditazione ma anche l’intento di spiegare le ragioni di un crimine come se ci potesse essere una giustificazione razionale: la fine della storia, la separazione, la delusione, l’inizio di una nuova vita della ex, ragioni sufficienti e raccontate senza tener presente la violenza agita dall’uomo culminata nella cancellazione di corpi ritenuti di sua proprietà. Un atto, quello di scrivere le ragioni nella ricerca di ricomporre un quadro accettabile da parte del femmicida, che ci fa capire che l’intento profondo di questi uomini è in realtà quello di ripristinare un potere su una situazione che è sfuggita al loro controllo, e questo anche a costo della soppressione fisica di sé, della donna o dell’intera famiglia, come ultima grande punizione a una trasgressione capitale. Situazioni che precipitano spesso quando la donna non solo vuole separarsi ma cerca di proteggere i figli e le figlie dalla violenza domestica e che troppe volte, nei tribunali, vengono scambiate per donne alienanti che impiantano dispute su figli contesi, almeno fin quando non ci scappa il morto, anzi, la morta.
A poco più di trentasei ore dal femminicidio di Immacolata Villani, sempre a Terzigno, un 48enne, è stato arrestato per maltrattamenti in famiglia, percosse e lesioni personali aggravate nei confronti della moglie. Una donna che alcuni anni fa era stata operata per gravi lesioni interne dopo le botte del marito e che aveva più volte cercato aiuto, ma che questa volta, minacciata dal lui con una spranga in mano nel cortile della casa da cui era stato allontanato, ha chiesto aiuto al 113 tramite la figlia. Nelle stesse ore a Sarteano, vicino a Montepulciano in Toscana, un uomo ha colpito con un cacciavite la moglie di 27 anni che non è morta solo per l’intervento tempestivo dei vicini. I due, che si stanno separando, hanno un figlio di 4 anni che è stato affidato alla madre con un provvedimento del Tribunale dei Minori, e che ieri era dal padre per una visita, terminata quando lei è andata a prendere il bambino e l’uomo l’ha colpita mirando al cuore. La donna però era seguita dal Centro antiviolenza della Valdichiana perché dopo le ripetute violenze voleva sottrarsi alle torture del marito e come spiega la presidente di Amica donna, Assunta Bigelli, “si era rivolta al Centro Antiviolenza da tempo e circa 6 mesi fa era stata allontanata da casa con inserimento in una struttura protetta, in accordo con i servizi sociali e le forze dell’ordine, dopo un primo tentativo di aggressione fisica da parte del marito alla presenza del figlio minore”. Eppure, pur avendo denunciato l’accaduto e manifestato paura per la sua incolumità e per quella del figlio, questa signora non aveva ottenuto alcun provvedimento a sua protezione da parte della Procura di Siena, nonostante fosse stata tempestivamente allertata dai Cc e dal centro antiviolenza, e il Tribunale aveva unicamente disposto, nel mese di febbraio, gli incontri protetti del padre con il figlio. “Un provvedimento – conclude Bigelli – insufficiente, come dimostra l’accaduto, perché ormai appare evidente come nonostante il grande impegno da parte del nostro Centro Antiviolenza e delle forze dell’ordine, la parola delle donne che denunciano la violenza domestica non sia presa sul serio, e che in attesa dell’accertamento del reato viene tutelato solo il diritto del padre a vedere i figli e le figlie, non il diritto della madre e dei figli a non essere più esposti alla violenza del marito/padre così come previsto dalla tanto citata e poco applicata Convenzione di Istanbul”.
Un ricatto, quello dei figli, che spesso viene sottovalutato e anzi sostenuto dagli stessi tribunali con decisioni che mettono in pericolo la vita delle donne che cercano di sottrarsi alla violenza di un marito che essendo un violento non può certo essere un buon padre.