Antonino Vadalà, il fratello Bruno e il cugino Pietro Catroppa sono stati arrestati per l’omicidio del giornalista Jan Kuciak e della compagna Martina. Il legame tra il delitto e l’inchiesta giornalistica, ove confermato, riporterebbe al centro dell’attenzione il ruolo della ndrangheta in Europa e il suo calibro sia criminale che economico.
Una dura verità cui Michele Albanese, che vive sotto scorta per aver raccontato la criminalità calabrese sul suo terreno, in queste ore sente tutto il peso di aver previsto buona parte delle cose che si stanno leggendo in queste ore e non perché sia una Cassandra bensì per essere un profondo conoscitore dei meccanismi si cui fonda la potenza ndranghetista, che include molti silenzi e coperture.
“Siamo davanti all’ennesima conferma del fatto che ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale liquida – dice – che ha occupato mezzo mondo e che sta in tutta Europa”. Poi c’è l’effetto sulla pelle, quel sentirsi in qualche modo “corresponsabili” perché gli assassini di un giornalista vengono dalla stessa terra in cui combatti ogni giorno per raccontare verità scomode. “Sì, è un peso anche questo. Se le responsabilità contestate dovessero essere confermate sarebbe terribile perché implica il dover legare quegli assassini alla mia Calabria. La ndrangheta non ha mai ucciso un giornalista in Calabria ma ora sappiamo che probabilmente lo ha fatto lì. Ma del potere di questa organizzazione criminale purtroppo si parla troppo poco, a volte affatto. In Italia si ‘scopre’ quanto è potente, ricca e spietata la ndrangheta quando questa combina qualcosa di grosso e grave all’estero, come è successo con la strage di Duisburg e come sta succedendo adesso. Eppure in Calabria succedono fatti gravissimi. Io insisto sul fatto che c’è bisogno di illuminare questa terra e devono farlo i media nazionali. E’ importante incrociare i dati, scavare, seguire le attività economiche della ndrangheta, seguire i soldi. E’ solo modo che abbiamo per onorare la memoria del collega ucciso. Lui stava indagando sulla ndrangheta e stava studiando che cos’è, aveva un manuale sulla scrivania, voleva capire il fenomeno. Ed è questo il giornalismo d’inchiesta.
Questo suo modo di lavorare ci spinge a mettere in campo un ulteriore impegno nel raccontare la mafia e lo dico adesso,a due giorni dal voto, in una campagna elettorale nella quale si è parlato pochissimo di criminalità organizzata”. Da ciò che va emergendo sul lavoro di inchiesta giornalistica di Jan Kuciak emerge anche un altro aspetto: il contributo delle relazioni investigative italiane, punto di partenza per capire chi erano gli investitori arrivati in Slovacchia dalla Calabria, a dimostrazione che le tecniche investigative dell’Italia e la specifica legislazione antimafia sono state modulate negli anni per combattere un fenomeno che probabilmente nel resto d’Europa è poco conosciuto, forse sottovalutato.”In Italia la normativa antimafia funziona – dice Michele Albanese – e siamo molto avanti per strumenti investigativi e repressivi. Due colleghi belgi con cui ho parlato di recente si stupivano del fatto che un personaggio della ndrangheta fermato con un ingente quantitativo di droga avesse potuto cavarsela semplicemente versando una buona cauzione. E’ così anche per il caso specifico dei calabresi in Slovacchia; in questa storia si parla di ingentissimi investimenti in immobili, terreni, aziende. L’Italia è attrezzata per sottrarre patrimoni di provenienza illecita, gli altri Paesi europei non credo, non in questi termini. Ma ciò che è accaduto costringe tutti a capire come la ndrangheta si inserisca nell’economia legale, dunque per stanarla bisogna analizzare i dati legali insieme alle anomalie che indicano gli illeciti e dal confronto di tali dati si può ricostruire l’impero economico dei clan.
In questo senso il lavoro di Jan non solo non deve essere abbandonato da noi giornalisti italiani, ma deve servire anche all’Europa per capire che tipo di potenza criminale hanno davanti. Secondo stime credibili l’attività illegale della ndrangheta vale 60 miliardi di euro l’anno, quasi il 5% del nostro Pil. Ciò da l’idea del fenomeno con cui abbiamo a che fare, stiamo parlando di un gruppo che dispone di una montagna di soldi, in grado di condizionare pezzi di economia e forse la stessa democrazia. Ritengo, a questo punto, che continuare a scavare, a seguire la pista degli investimenti in Europa sia un dovere morale. E bisogna raccontare la Calabria, questa terra bellissima che però è attraversata da cosche senza alcuno scrupolo”. La ndrangheta ha ucciso un giornalista che voleva raccontare il valore finanziario degli affari messi in campo in un Paese dell’Ue, dunque non era un’inchiesta giornalistica sul traffico di droga o armi, che pure ci sono e appartengono al core business delle mafie italiane. No, si parlava di economia e di legami con la politica che conta. Quindi la domanda più utile in queste ore è: si può raccontare l’economia in Europa, o meglio lo si può fare a tutto tondo? Se ciò infastidisce la ndrangheta è pericoloso, letale.
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