Il mio primo dei numerosi viaggi realizzati in Afghanistan, via terra con un minibus, risale al 1973, il 1393 del calendario islamico – oggi siamo nel 1439 – il capodanno islamico inizia nel pomeriggio del 22 settembre. In molte regioni il tempo sembra fermo, gli afghani nati nel 1973, anno del primo colpo di stato che mise fine alla monarchia di Re Zahir, non sanno che cosa sia la pace e forse non lo sapranno ancora per anni. L’Afghanistan è stato la mia scuola di vita e di reporter, un popolo di 40 milioni in maggioranza di etnia pasthun, di credenze islamiche arcaiche medioevali, in maggioranza nomade. Ho assistito alle invasioni in Afghanistan, quella russa nel dicembre 1979, che provocò tra l’altro l’esplosione del traffico mondiale di droga, eroina e cannabis, in ultimo l’invasione della Nato con talebani pasthun.
In alcune occasioni mi sono mimetizzato e armato per difendermi, sono stato anche rapito, torturato, ho sofferto molto, in genere sono stato sfortunato, nonostante tutto però sono ancora vivo. Ero in Afghanistan prima dell’attentato alle Torri Gemelle: solo nelle città si venne a sapere, la maggioranza del paese e i nomadi ne restarono all’oscuro. All’epoca comandavano gli studenti del Corano ed era in vigore la sharia, la legge integralista, l’emirato islamico dell’Afghanistan, con capitale spirituale la città di Kandahar. Con l’aiuto diplomatico delle Nazioni Unite riuscii ad avere un permesso speciale di intervistare il mullah Omar, capo dei Talebani. I Talebani, studenti del Corano, non rilasciavano nessun intervista ai giornalisti occidentali, perché a loro dire facevano disinformazione. Andai a Kandahar ancora una volta via terra, e attesi nella piccola casetta su cui sventolava la bandiera dell’Onu; ricordo che con la mia fedele radio satellitare, ascoltavo musica sacra islamica in quanto era in vigore la sharia, anche la tv era oscurata.Gli accordi prevedevano niente telecamere e registrazioni foto audio, solo alla presenza di un interprete talebano che traduceva in francese. Dopo due giorni di attesa arrivarono una ventina di talebani, in macchine con cassonetto Toyota; con loro attraversai la città e arrivai alla residenza del capo dell’Emirato, un edificio basso, circondato da mura bianche-verdi. Seduti su un grande tappeto, c’erano quattro Mullah, tra cui il nuovo capo. Omar aveva un occhio solo, l’altro l’aveva perso durante la guerra con i russi, aveva un turbante nero. Dopo aver bevuto un the, mi spiegò la situazione del paese, gli intenti di ricostruire, il rispetto della sharia, poi il discorso scivolò sul problema dei diritti umani, infine sull’oppio e le raffinerie de eroina. Mi disse che a ottobre del 2000 ai contadini era stato proibito di seminare il papaverum sonniferum, il fiore da cui si ricava l’oppio, e mi invitò di andare in giro con i talebani a fotografare le zone di produzione, nel mese di maggio, senza oppio: accettai l’invito e le foto le ho date all’Onu.
Mentre dialogavamo all’improvviso arrivò un uomo magro e alto, mi fu presentato come un parente che aveva sposato una figlia, il suo nome era Osama bin Laden.Lui chiese chi ero e si presentò come un uomo di affari; il discorso scivolò presto sul progetto di un gasdotto che doveva portare il gas russo nell’Oceano Indiano, lui come uomo di affari era interessato, ma dopo aver investito dollari l’operazione sfumò: da qui la sua rabbia, di religione non parlammo. Mi congedai, andai a con la scorta di talebani in giro nella regione di Helmand a fotografare i campi senza papaveri. Poi, rischiando, andai nel Balucistan pakistano, a Quetta, dove avevo lasciato una piccola telecamera. La nascosi, mi rimisi in viaggio rischiando la pena di morte, realizzai un reportage sull’Afghanistan dei Talebani, per RAI TG1 SPECIALI, visibile oggi su youtube.
Riuscii a farmi portare bendato nella più grande raffineria di oppio nel villaggio di Landikotal nell’area tribale, con la promessa di non farmi riconoscere il posto, nella terra di nessuno, piena di latitanti e trafficanti. Alle Nazioni Unite gli afghani avevano promesso che non avrebbero prodotto più oppio, in cambio l’ONU ai contadini avrebbe distribuito migliaia di dollari come risarcimento. Ma al momento di pagare, ricordo in una riunione a Ginevra, due donne, una italiana e una svedese, bloccarono l’iniziativa, dicendo che non bisognava dare soldi ai talebani che applicavano la sahria. Colpa loro i contadini afghani furono traditi, con la conseguenza che l’anno dopo riprese la produzione record di oppio, che ancora continua oggi.
Devo ringraziare la RAI dell’epoca e le Nazioni Unite per avermi assistito per la mia sicurezza. A più di 50 anni di distanza posso azzardare un bilancio dell’Afghanistan e dintorni. Ma non voglio parlare di guerra, ma di ricchezze energetiche, che sono il vero motivo del calvario di questo popolo e di molti altri. Il 25 febbraio di questo anno, in Afghanistan, nella città di Herat al confine con l’Iran e con Turkmenistan, delegazioni dell’Asia Centrale firmavano un accordo storico per la costruzione del nuovo gasdotto TAPI, un vecchio progetto, che include Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India, la cui costruzione dovrebbe terminare nel 2020, e costerà 10 miliardi di dollari. E’ sostenuto da Stati Uniti e Banca asiatica di sviluppo, sarà in grado di trasportare 33 miliardi di metri cubi all’anno di gas turkmeno; la lunghezza è di 1800 km, lungo un tracciato che porterà sviluppo e cooperazione ai quattro paesi, dalla regione del Mar Caspio al Mare Arabico e finalmente collegherà l’Asia centrale a quella meridionale attraverso l’Afghanistan (che non ha le sbocco al mare), si collegherà ad una deviazione nel deserto del Balucistan pakistano e servirà anche l’India, il gasdotto terminerà nel porto pakistano di Gondar per esportare il gas, il terminal è vicino allo Stretto di Hormuz iraniano.
“Una rivoluzione geopolitica che dovrebbe pacificare una regione dopo oltre un secolo di divisioni”, ha commentato l’attuale presidente afghano Ashraf Ghani. Il Tapi, non solo riavvicina Turkmenistan, India, Pakistan ad Afghanistan – opposti da pesanti diatribe – ma ha anche ottenuto il “nullaosta” dei Talebani afghani, che hanno garantito la loro “piena collaborazione”, riconoscendo che il piano “contribuirà pienamente allo sviluppo delle infrastrutture economiche del paese”. Il gasdotto attraverserà infatti varie regioni controllate da talebani armati e da gruppi di terroristi che ancora oggi sono soliti sfidare Kabul. Questa notizia merita di essere approfondita perché la questione energetica è strategica. Il valore dei nuovi giacimenti minerari scoperti potrà sviluppare le minuscole dimensioni dell’attuale economia in crisi, che si basa in gran parte sulla produzione di oppio e sul traffico di narcotici. “Questo gasdotto diventerà la spina dorsale dell’economia afgana”, e sopratutto le ricchezze minerarie avranno quasi certamente un grande impatto. Ma c’è un risvolto della medaglia. Invece di portare pace, il nuovo gasdotto potrebbe portare i talebani a combattere ancora più ferocemente per riprendere il controllo del paese.
Ma andiamo indietro nel tempo, nel 2004 geologi americani, inviati in Afghanistan, scoprirono una serie di vecchi grafici e dati presso la Biblioteca Universitaria, i dati erano stati raccolti dagli esperti sovietici durante l’occupazione negli anni ’80, ma messi da parte quando i sovietici si ritirarono nel 1989. Durante il caos degli anni ’90, quando l’Afghanistan era impantanato nella guerra civile, in quel tempo un piccolo gruppo di giovani geologi afgani prese le carte dei giacimenti minerari portandole a casa. Le restituirono alla biblioteca del Geological Survey solo dopo l’invasione americana e la cacciata dei talebani nel 2001.
A quel punto con le vecchie carte russe, gli Stati Uniti e il Geological Survey nel 2009, formarono una task force per calcolare il potenziale valore economico dei giacimenti minerari di ferro e rame; le quantità sono abbastanza grandi da rendere l’Afghanistan un importante produttore mondiale di entrambi, grandi depositi di niobio, un metallo tenero utilizzato nella produzione di acciaio superconduttore, elementi di terre rare, grandi giacimenti d’oro, nella regione di Gazhni nell’Afghanistan occidentale, dei laghi secchi salati, vi sono grandi depositi di litio che fanno dell’Afghanistan una delle nazioni strategiche.
Gli americani sapevano da molto tempo, prima dell’invasione del 2001, che l’Afghanistan era un tesoro. Oggi la coalizione Nato, serve anche a giustificare la presenza in Afghanistan. Gli Stati Uniti avevano piani pronti al momento dell’attacco dell’11 settembre per invadere sette paesi (tra cui Iraq e Afghanistan): allora il quadro generale comincia farsi chiaro. Il potenziale economico è stato calcolato in un trilione di dollari di riserve di risorse naturali – petrolio, oro, minerale di ferro, rame, litio e altri minerali. La China National Petroleum Corporation, ha iniziato a pompare petrolio dal campo di Amu Darya nel nord, un consorzio di investimenti organizzato da JPMorgan Chase estrae oro da una miniera del nord. Mentre un’altra azienda cinese sta cercando di sviluppare un’enorme miniera di rame.L’Afghanstan è distrutto, ci sono ancora milioni di mine, bande di criminali, la povertà, la corruzione che è dilagante potrebbe anche essere amplificata dalla nuova ricchezza, in particolare di oligarchi ben collegati, signori della guerra, alcuni con legami personali con i politici. Ci sono anche interessi stranieri; tempo fa, una tangente da 30 milioni di dollari fu presa da un ministro per assegnare alla Cina i diritti di sviluppare la sua miniera di rame. Scontri senza fine potrebbero esplodere tra il governo centrale di Kabul e i leader provinciali e tribali nei distretti ricchi di minerali. In Afghanistan gli americani da anni hanno interessi minerari, i funzionari americani temono che la Cina, affamata di risorse, cercherà di dominare; questo potrebbe danneggiare gli Stati Uniti, come à successo con la miniera di rame Aynak nella provincia di Logar. Per l’Afghanistan occorreranno decenni per sfruttare appieno la sua ricchezza mineraria, ma i problemi sono molti. Del traffico di droga che interessa l’Afghanistan e la Colombia, non si parla; dei retroscena che stanno destabilizzando il mondo, parleremo prossimamente.
Intanto negli anni il mestiere di reporter è cambiato; si guardano i monitor, si sono formati reporter e giornaliste che non viaggiano e non rischiano, sempre eleganti commentano dagli studi notizie senza controllare le fonti, e quindi siamo sommersi dalle fake news. Aveva ragione il giornalista inviato de ‘La Stampa’ Mimmo Candito nelle sue analisi; nei suoi libri scritti sui reporter di guerra, spiegava come il mestiere è molto cambiato, che un reporter deve essere un uomo di cultura globale, coraggioso, sempre presente, anche negli scenari difficili, impegnarsi per capire le verità nascoste, per fare un buon servizio pubblico. Con Mimmo qualche volta ci siamo incontrati, anche in Afghanistan, ci raccontavamo fatti e pericoli, lontani dalle nostre famiglie e da tutti, soli tra bombe, mine e proiettili che ci facevamo compagnia, mentre le nostre menti maturavano tra migliaia di morti, fiumi di sangue di guerre e drammi. Lui se n’è andato dopo aver combattuto un tumore, ora tocca a me combattere i problemi di salute, mantenendo lucidità e saggezza… con la paura delle sirene di mille ambulanze che sento ancora nelle orecchie, nella solitudine intellettuale che ci soffoca. Permettetemi di dire “grazie di tutto Mimmo, sulle rive del grande fiume Po riposa in pace”. E un ricordo va al grande Enzo Biagi, a cui dedico questo tv reportage….