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La Russia di Putin nella stagione degli oligarchi

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Sul fatto che avrebbe vinto Putin non c’era alcun dubbio, così come non c’era alcun dubbio sul fatto che avrebbe conquistato oltre il 70 per cento dei consensi. Ciò su cui sarà opportuno interrogarsi d’ora in poi, dunque, è cosa accadrà al Cremlino ora che lo zar del Ventunesimo secolo ha ottenuto un nuovo mandato presidenziale. Innanzitutto, sarà bene smetterla di pensare che i russi non lo vogliano e che a tenerlo in piedi sia una sparuta minoranza di oligarchi: non è vero ed è un errore di lettura storica e politica che rischia di costare molto caro all’Occidente. In secondo luogo, sarà bene capire, una volta per tutte, che gli equilibri globali non possono prescindere da Mosca: sia per quanto riguarda l’Europa sia per quanto concerne i delicatissimi assetti mediorientali. Infine, bisognerà cominciare a smetterla di dare ascolto alle sirene guerrafondaie che vorrebbero far tornare il pianeta a prima dell’89, attraverso una costante e fastidiosa provocazione nei confronti dell’amministrazione russa, fatta di velate minacce, assurde sanzioni e accuse d’ogni sorta, spesso destiuite di fondamento.

Sia chiaro: nessuno di noi pensa che Putin sia un galantuomo o che non sarebbe meglio avere a che fare, ad esempio, con un Gorbačëv; fatto sta che questo è il presidente che i russi hanno scelto e confermato più volte e con lui bisogna fare i conti, stando ben attenti a non invocare un ritorno di mezze figure alla El’Cin che, oggi con oggi, costituirebbero un pericolo non solo per il proprio Paese ma anche per l’avvenire di intere regioni del mondo, a cominciare dalle ex repubbliche sovietiche, senza dimenticare la Siria e l’Iraq.

Piaccia o non piaccia, e a me personalmente non piace, senza Putin l’ISIS non sarebbe stato indebolito al punto che gli osservatori più ottimisti parlano ormai di una sua sconfitta. Piaccia o non piaccia, la Russia costituisce un interlocutore essenziale in ambito energetico e un mediatore imprescindibile nei rapporti con la Cina e la Corea del Nord. Piaccia o non piaccia, la storia non è finita con la caduta del Muro di Berlino, come ha cercato di farci credere per vent’anni il prode Fukuyama, e attualmente è più probabile che nuovi equilibri vengano a crearsi in Oriente attorno a Xi Jinping piuttosto che nell’America isolazionista, muscolare e indecifrabile di Trump.

Al che, sarà bene che la diplomazia e le cancellerie europee nel loro insieme capiscano che interrompere ogni relazione con Putin vorrebbe dire tagliarsi fuori dalle nuove vie del commercio e dello sviluppo economico e rinchiudersi in una sorta di moderno Patto Atlantico che, tuttavia, non potrebbe reggere in assenza di un Piano Marshall all’altezza dei tempi e di una politica aperta e inclusiva con quella che venne portata avanti dall’America nei primi decenni del dopoguerra, peraltro più per convenienza che per effettiva convinzione.

Peccato, però, che gli Stati Uniti contemporanei siano l’esatto opposto di ciò che erano allora e non costituiscano più una sponda su cui fare affidamento né il tipo di alleato che sono stati nel Ventesimo secolo. Se non prendiamo atto che questo sarà un “secolo cinese” e che Xi Jinping ha ottenuto, a tal proposito, un’invstitura vitalizia che non si vedeva dai tempi di Mao, rischiamo dunque di non fare i conti con una realtà profondamente diversa rispetto a quella con cui ci siamo confrontati, anche nei nostri studi, fino a dieci-quindici anni fa.

In un mondo multipolare  multietnico, in cui la complessità del reale è assai superiore rispetto ad un tempo e in cui sono saltati tutti i vecchi schemi e le caratteristiche demografiche cui eravamo abituati, illudersi di essere di fronte ad un normale cambiamento anziché a un passaggio d’epoca che peraltro sta avvenendo al buio vorrebbe dire condannarsi all’irrilevanza, che è ciò che purtroppo sta facendo il Vecchio Continente dal 2005 (anno della bocciatura della Cosituzione europea ad opera di Francia e Olanda) in poi.

Un’Europa senza una guida politica, una sovranità popolare autentica e riconosciuta, un governo forte e autorevole, partiti e sindacati transnazionali e una banca centrale che sia prestatrice di ultima istanza nei confronti degli Stati nazionali, un’Europa come quella attuale insomma è inutile, se non addirittura dannosa.

Dialogare con Putin, togliere le sanzioni alla Russia, utilizzarla come nazione ponte e mediatrice essenziale nei confronti dell’Oriente e aprire una nuova fase nelle relazioni internazionali sono, pertanto, scelte obbligate per un’Europa oggi afona e in guerra con se stessa. In caso contrario, infatti, nel conteso di un isolazionismo auto-imposto e di un vassallaggio dal quale non riusciamo ad affrancarci, non ci rimarrà che il declino, con il serio rischio che i conflitti che si agitano intorno a noi finiscano, a breve, col travolgerci.


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