Dalla rappresentanza mediante i partiti alla rappresentanza per mezzo del pubblico. Sarebbe questo, secondo Nadia Urbinati, docente di scienze politiche alla Columbia University e nota editorialista di Repubblica, il dato più significativo nei risultati elettorali del 4 marzo. E spiega. “Chi ha studiato il governo rappresentativo, prima fra primo fra tutti Bernard Manin, ha riscontrato tre metamorfosi: dalla rappresentanza per notabilato, quando non c’era ancora il suffragio universale, alla rappresentanza dei partiti con l’avvento della democrazia; e da questa alla rappresentanza per mezzo del pubblico. Nei primi due casi, il pubblico era tenuto da chi gestiva la rappresentanza – i comitati elettorali, i partiti, i giornali. Nell’ultimo caso il pubblico si impone direttamente e internet rende ciò possibile…La democrazia del pubblico vuole una direttezza di rappresentanza delle questioni e dei problemi dei cittadini, fuori dalle letture ideologiche”.
Come questa democrazia, populista “in senso tecnico” – conclude il suo articolo Nadia Urbinati – muterà le istituzioni, i sistemi di controllo e la democrazia elettorale non sappiamo; ma dobbiamo preoccuparcene con prudenza”. Perché si tratta “di una metamorfosi che è in corso e non si può rifiutare. Un ipotetico fallimento del M5S non darà nuova linfa ai partiti. La democrazia del pubblico sembra essere giunta per restare”.
Ecco, “preoccuparcene con prudenza” mi pare la ricetta giusta. Cominciando con evitare l’abuso dialettico di parole come ideologia, che sembrano oggi entrate nel lessico dell’insulto politico. Se, come dice il dizionario, per ideologia si intende un “sistema di idee e di principi sui quali si fondano gli atteggiamenti sociali”, a me pare che qualunque partito o movimento dichiari di voler difendere “i propri valori” – liberali o socialisti, cattolici o laici, sovranisti o globalisti – vi faccia in qualche modo riferimento. Ma si può concludere diversamente se i fatti non vengono più valutati e interpretati secondo la loro reale consistenza ma solo in base a un determinato schema ideologico.
La stessa prudenza occorre nel giudicare internet, che non è né il paradiso della democrazia diretta come vorrebbero gli uni né l’anticamera del “grande fratello” come paventano altri. Con questi ultimi sembrerebbe essersi schierato oggi, sulla Repubblica, il costituzionalista Michele Ainis che in un articolo intitolato “Questa non è democrazia” accusa sia i grandi motori di ricerca come Google sia i social network come Facebook, Twitter e Instagram, di manipolare i “big data” facendo passare tutti “i contenuti di terze parti attraverso la loro intelaiatura”. “Non è vero – scrive Ainis – che il Web sia l’arma che ci difende dal potere, perché quest’ultimo se ne serve meglio e di più rispetto ai cittadini…per esempio attraverso l’e-government con cui il potere esecutivo si rafforza, marginalizzando il parlamento”.
Ora, che questa sia una parte della verità è difficile negare. Non solo perché la rete è soprattutto un luogo di relazioni commerciali, dove i cittadini vengono presi in considerazione soltanto come consumatori di pubblicità. Chi è interessato a proporre qualcosa – che si tratti di informazione, di cultura o di merce, per i social non c’è differenza – ottiene visibilità sul web soltanto se è disposto a pagare, e pagare caro. Altrimenti, per quanto interessanti o appetibili possano essere i suoi argomenti, è destinato a restare nell’ombra, dal momento che, annota Ainis, “il 91,5% degli utenti di Google si ferma alla prima pagina”. E lo stesso accade sui social, con un rapporto assai stretto tra il budget investito nella promozione e il numero prevedibile delle persone raggiunte.
Come si vede, per preoccuparsi del danno che può procurarsi alla democrazia con l’uso dei social non occorreva attendere la notizia, apparsa oggi su tutti i giornali, dei 50 milioni di profili rubati da Facebook. Gli stessi utilizzati, pare, da “Cambridge Analytica”, una società inglese, per influenzare il voto in America e in Europa. La sua pagina è già stata oscurata dal network.Tuttavia questi aspetti negativi rappresentano solo una parte della verità perché conoscenza e informazione, sia pure in modo disordinato e non garantito, sono comunque a disposizione di chiunque le cerchi, certo molto più di quanto accadeva prima che arrivasse internet. E così pure il confronto delle opinioni, sempre che si usi l’accortezza di preferire quei siti dove i disturbatori e i “trolls” vengono emarginati e il dibattito sui problemi si svolge con intelligenza e un minimo di competenza.
Certo che è meglio incontrarsi e discutere di persona, ma chiunque frequenti un’associazione o un partito sa bene quanto sia difficile oggi promuoverne la partecipazione, figuriamoci un contatto quotidiano come quello invece consentito dai social. Io non so come funzioni la piattaforma “Rousseau” ma la partecipazione che riesce a promuovere mi pare notevole. D’altronde una cosa non esclude l’altra. Ecco perché anch’io penso come Nadia Urbinati che la democrazia “del pubblico”, a dispetto di ogni demonizzazione, sia destinata a restare. Dovrebbe tenerne conto chiunque pensa che a risolvere i problemi dei cittadini basti una delega in bianco all’oligarchia dei partiti. O la (noiosissima) claque del pubblico dei talk show in televisione. Se non è indispensabile che il popolo decida direttamente, al posto del parlamento, sulle leggi principali, non sono comunque sufficienti i sondaggi a misurare le attese degli elettori. La democrazia non può risolversi in oligarchia, come vorrebbe il paradosso tanto amato da Eugenio Scalfari.
Termino con un riferimento a “Possibile” che ha concluso ieri a Bologna i suoi “Stati Generali” votando per l’apertura del congresso nazionale, col quale si deciderà del suo contributo alla costruzione del nuovo soggetto politico unitario della sinistra. “La cifra di Possibile è culturale e programmatica” ha affermato Pippo Civati invitando “all’impegno e alla mobilitazione, attivando competenze e esperienze in ogni campo”. Sull’esempio di Bernie Sanders, che sollecitava i suoi sostenitori a cercare ciò che nella società americana è già presente e attivo. Quel «possibile», ha precisato Civati, “che è già in campo, che non dipende da noi, che non ci ha aspettato. Che rende migliore la società in cui viviamo, che dà battaglia su questioni che riguardano la giustizia economica e sociale, che si preoccupa di estendere i diritti, di tutelarli, di trovare soluzioni più avanzate per vivere meglio, tutti quanti. La nostra ricerca è indirizzata alla politica, perché solo se ritroveremo la politica, ritroveremo anche la sinistra”. In questo, anche internet può dare una mano.