di Marco Omizzolo
Contro mafiosi e criminali, caporali e trafficanti tutti riconsocono l’importanza della denuncia. Se ti sfruttano, affermano, devi denunciare. Se sei vittima di caporalato, devi denunciare. Gli appelli in tal senso sono continui. Non si sconfiggono le mafie e lo sfruttamento, affermano e con ragione, senza la denuncia.
Non ci sarebbe antimafia senza il coraggio di alcuni, italiani e migranti, che da semplici cittadini o come lavoratori, decidono di denunciare il boss di turno, il caporale, il trafficante di esseri umani. Quando si presenta una denuncia, sia chiaro, ci si affida allo Stato, ai processi che dallo Stato sono organizzati, alle procedure formali, alle leggi dell’ordinamento.
Si ripone fiducia nella giustizia immaginando di ottenerne presto, dando un contributo al Paese in cui si è nati o nel quale si risiede.
Questa però è solo, purtroppo, a volte, retorica. Contro le mafie dei padrini e dei padroni si chiede infatti alle vittime più fragili, le lavoratrici e i lavoratori migranti sotto caporalato e gravemente sfruttati, di denunciare e di avere fiducia nello Stato italiano. Una fiducia a volte ricambiata.
È accaduto con il processo Sabr a Lecce che ha riconosciuto le responsabilità di un sistema mafioso di sfruttamento che prevedeva la riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti.
Ma cosa succede invece generalmente in molti tribunali italiani? Succede che ci si rende conto di un’Italia che decide di non scendere in campo e di perdere, dunque, la partita della giustizia ancora prima di averla giocata. Sono decine i processi contro caporali, sfruttatori e trafficanti iniziati grazie alle coraggiose denunce di lavoratori migranti ridotti in schiavitù, vittime di caporalato e di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Pochi di questi però arrivano addirittura alla prima udienza. C’è da vergognarsi.
Se per questa strada si vuole contrastare e sconfiggere lo sfruttamento lavorativo e le agromafie è meglio tornare alla mobilitazione o nel peggiore dei casi riconoscere di aver fallito come Paese. Spesso i tribunali più inefficienti sono proprio quelli presenti in territori in cui il fenomeno mafioso e dello sfruttamento lavorativo è particolarmente organizzato, rodato, diffuso, sistemico.
Presso il Tribunale del Lavoro di Latina, ad esempio, una della province dove il caporalato e le mafie sono più diffuse, peraltro in forme spesso originali, c’è solo un giudice deputato a dirimere migliaia di cause. Secondo le raccomandazioni giunte da Roma dovrebbero, forse, arrivare altri due magistrati. Per ora però nessuna garanzia reale e, comunque, resterebbe un Tribunale gravemente sotto organico.
Proprio in provincia di Latina, il 18 aprile del 2016, è stato organizzato dalla Onlus “In Migrazione” e dalla Flai Cgil uno dei più importanti scioperi di braccianti migranti contro lo sfruttamento degli ultimi cinquantanni. Una vera azione di antimafia sociale. Da allora “In Migrazione” continua a girare per le campagne per intervistare i braccianti indiani vittime di caporalato e tratta, gravemente sfruttati e truffati in vario modo, fornendo loro consulenza legale gratuita, facendo formazione e spesso incoraggiando la denuncia nei casi più gravi. Un’attività non senza pericoli, considerando il complesso degli interessi economici e politici, criminali e non solo, che si toccano, contrastano e denunciano.
“Dopo il 18 aprile – dichiara Simone Andreotti, presidente di In Migrazione – grazie al capillare lavoro di mediazione e informazione che stiamo conducendo nel territorio e nonostante i pericoli, abbiamo aiutato oltre 70 braccianti indiani a denunciare caporali, padroni e sfruttatori vari. Un lavoro fatto con grande passione e competenza e senza alcun sostegno da parte delle istituzioni locali interessate”.
Scorrendo i nomi delle aziende e dei caporali denunciati si riesce a disegnare una cartina precisa dell’agromafia di quella provincia mentre ascoltando le storie dei lavoratori punjabi sfruttati si comprende perfettamente l’organizzazione mafiosa del caporalato pontino. Eppure, con un solo giudice al lavoro o quasi, quelle domande di giustizia e legalità vengono puntualmente disattese.In questo modo l’ingiustizia rimane organizzata, diffusa e mafiosa. L’ordine degli avvocati di Latina si è già rivolto al Consiglio superiore della Magistratura e al ministro della Giustizia denunciando il rinvio sine die dei processi e l’inadeguatezza dei locali adibiti a sezione lavoro, incapienti e inadatti alla trattazione delle udienze.
“E’ inaccettabile – afferma Roberto Iovino, responsabile legalità Flai Cgil – che in un paese civile e a distanza di anni, i lavoratori che hanno avuto il coraggio di denunciare la difformità della loro retribuzione rispetto a quanto previsto dai contratti non abbiano ancora ricevuto giustizia. Si dà cosi l’immagine di uno Stato assente, vanificando lo sforzo di chi è impegnato ad affermare legalità e giustizia nel mondo del lavoro. Non si può da un lato annunciare una lotta senza quartiere al lavoro nero e al caporalato per poi non fornire a chi deve fare le ispezioni e ai magistrati del lavoro le risorse necessarie per assicurare che sia fatta giustizia”.
Intanto le denunce continunano a riempire gli armadi del tribunale, l’ansia di giustizia dei lavoratori viene umiliata e la certezza di impunità dei padroni e dei mafiosi confermata.
Kamaljiit, bracciante indiano di circa cinquant’anni che per venti ha lavorato nelle relative campagne spezzandosi la schiena sotto diversi padroni e molti caporali, dice di essere “molto deluso dallo Stato italiano. ..Io volevo giustizia perché il padrone italiano mi ha sfruttato facendomi lavorare tutti i giorni e dandomi a fine mese circa 400 euro. Lavoravo anche 14 ore al giorno. Ma qui in Italia sembra che la giustizia sia dalla parte dei padroni”.
Dopo aver ascoltato una riunione organizzata da “In Migrazione” e precisamente nel tempio Sikh nel comune di Sabaudia, in cui si informavano i braccianti dei loro diritti, del valore del contratto di lavoro, del ruolo del padrone e del caporale, Kamaljiit decide, con un atto di grande coraggio e responsabilità, di denuciare la sua condizione facendo nomi e cognomi. Un atto che meriterebbe il riconoscimento della cittadinanza italiana in un Paese civile.
Kamaljiit abitava in un uno stanzone senza riscaldamento e con copertura in eternit insieme ad altri 7 lavoratori indiani. Aveva a disposizione solo un letto e un armadio dove teneva i suoi pochi vestiti e qualche foto della famiglia in India. Per mangiare si rivolgeva al tempio della sua comuntà che gli garantiva sempre un pasto caldo. Lavorava per un’azienda agricola tra San Felice Circeo e Sabaudia, domenica compresa, per appena 3 euro l’ora. Coi pochi soldi guadagnati poteva permettersi solo una bicicletta con la quale ogni mattina faceva circa 20 chilometri per andare a lavorare ed altrettanti per tornare a casa.
Per due anni Kamaljiit ha annotato tutto dietro le pagine di alcuni calendari. Ha registrato il complesso delle ore lavorate al giorno, quanti soldi ha percepito e quanti il padrone gliene aveva promessi, fino al momento in cui ha deciso di denunciare, consapevole che la difesa della propria dignità è la prima forma di antimafia da mettere in campo. La denuncia gli è costata molto, anche solo considerando la sua esposizione e i rischi impliciti. Stante la sua condizione, si trattava di un gesto rivoluzionario. Dal padrone, dopo qualche settimana, è stato allontanato e gravemente minacciato. Kamaljiit viene preso in carico da “In Migrazione” che riesce a trovargli fuori provincia un lavoro in un’azienda agricola che gli ha garantito un contratto e tutti i diritti relativi. Si è affidato allo Stato.
Ebbene, sono trascorsi 4 anni da quella denuncia e il Tribunale di Latina non è riuscito a tenere neanche la prima udienza di quel processo. Quattro anni di silenzi, frustrazione, anonimato obbligatorio. Intanto i suoi testimoni hanno preso altre strade. Alcuni sono tornati in India, altri sono andati a lavorare nelle campagne di Reggio Emilia. La sua udienza, finalmente fissata per il 30 novembre del 2017, è stata ulteriormente rinviata a fine novembre del 2018. Kamaljiit sa che forse non avrà giustizia dal Paese nel quale vive da circa 20 anni. Il padrone italiano invece non sarà obbligato ad assumersi le sue responsabilità, anzi, ne uscirà, probabilmente, pulito e libero.
Lo stesso sta accadendo con un’azienda ortofrutticola tra le più grandi del Pontino. Produce ravanelli in serra che i lavoratori raccolgono piegati sulle ginocchia tutto il giorno per poi esportarli in tutta Europa, Olanda compresa. I lavoratori venivano pagati 3 euro per raccogliere 120 mazzetti da 15 di ravanelli. È lavoro a cottimo. Gli 80 euro del governo non sono mai arrivati nelle tasche dei braccianti indiani che erano obbligati anche a comprarsi gli indumenti adatti per lavorare.
Dopo una loro pacifica richiesta di aumento rivolta direttamente al datore di lavoro, quest’ultimo, per repressione, ha abbassato la retribuzione a 2,90 euro. Il caporale indiano reclutava prevalentemente i lavoratori più giovani la sera per la mattina mediante messaggio sui social. I lavoratori più anziani erano considerati meno subordinati perché più consapevoli dei loro diritti e, dunque, meno ricattabili. Per questa ragione sono stati chiamati sempre meno, mobbizzati, emarginati e mal pagati. I braccianti indiani, anche in questo caso, hanno denunciato tutto, compreso il caporale indiano che dopo due anni di appostamenti della Polizia di Stato, intercettazioni, interrogatori e filmati, viene arrestato, salvo tornare in libertà e al lavoro nella sua stessa ex azienda dopo appena pochi giorni.
“Abbiamo denunciato e aspettiamo giustizia ma ci ha sorpreso rivedere il caporale lavorare. Quella persona ci ha insultato, trattenuto i soldi dallo stipendio e spesso non ci chiamava a lavorare perché noi conosciamo i nostri diritti. Se dopo le denunce non cambia nulla perché denunciare?” dice Hardeep, uno dei lavoratori che ha presentato denuncia e che peraltro è stato vittima di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo. Sono trascorsi tre anni e ci sono state solo alcune udienze preliminari. I testimoni dei lavoratori indiani dovevano presentarsi dinnanzi al giudice a fine novembre 2017 ed invece l’udienza è stata rinviata, anche in questo caso, a fine novembre del 2018. I lavoratori continuano a chiedere giustizia ad uno Stato che sembra aver alzato bandiera bianca.
Padroni, aziende e sempre più anche caporali lo sanno benissimo e si lasciano denunciare sapendo che tutto sarà rinviato, sine die. I braccianti intanto continuano ad essere reclutati dai caporali e alcune aziende agricole continuano a pagare 3 euro l’ora per 14 ore di lavoro al giorno. Poco è cambiato per i lavoratori se non la consapevolezza di vivere in un Paese ingiusto come i padroni italiani dinnanzi ai quali devono chinare la testa ogni giorno della loro vita lavorativa, alcuni dei quali si fanno anche chiamare boss.
(13 – continua)