E’ stato un venerdì triste. Ci ha lasciati un grande uomo, un grande intellettuale: Gillo Dorfles. Artista multiforme, studioso della realtà contemporanea e delle sue rappresentazioni. Era ultracentenario, ma la sua giovinezza d’animo lo faceva essere un uomo senza Tempo!
In un mucchio di libri che ho sempre a portata di mano, i giorni scorsi cercavo uno dei suoi testi “Ultime tendenze nell’arte d’ oggi” . Nel capitolo le Conclusioni (ma di fatto per lui le conclusioni non esistono) scrive: “Non può esistere una conclusione come quella dell’Arte contemporanea: proprio perchè è una vicenda ancora fuori dalla storia che si svolge sotto i nostri occhi e che muta con lo stesso mutare. E sarebbe davvero da sprovveduti tentare un bilancio conclusivo o azzardare delle precise ipotesi per il futuro. E tuttavia, vorrei cercare di giungere ad una sorta di conclusione, non già storica ma di sistemazione estetica, circa il combattuto periodo artistico”.
Dorfles era un artista poliedrico, un filosofo. Era stato professore di estetica a Milano e Trieste, era laureato in medicina, Amava Jung, Goethe, Proust, Joyce Klee, Kandisnskij, Mirò e tanti altri. Aveva assorbito la cultura mitteleuropea. Da bambino nella sua Trieste ancora Austroungarica frequentava la libreria di Umberto Saba insieme alla mamma. Osservava con lo stupore fantastico dell’infanzia le tavole grafiche dei progetti del padre, ingegnere navale, con la passione del disegno nel tempo libero. E il design, l’arte applicata alla vita quotidiana sarà poi uno dei tanti filoni di ricerca a cui dedicherà i suoi studi L’arte” utile” la produzione in serie, che nel tempo affiancherà quella più tradizionalmente “pura” sarà una sua intuizione giovanile che nel corso degli anni svilupperà poi in definizioni analitiche ancora oggi pilastro di riferimento e riflessione per appassionati e studiosi.
Uomo del Novecento, con solide radici classiche aveva compreso, lui sperimentatore per vocazione che, come sempre era successo nel passato, stava mutando un’epoca, e la sua sensibilità di critico attento e preveggente ne avvertiva tutti i flussi emergenti e sotterranei. Nascono così “Il divenire delle arti”, “Le oscillazioni del gusto”, “Elogio della disarmonia” “Il feticcio quotidiano” “Il kitsch”, “Nuovi Miti Nuovi Riti”, “Artificio e Natura”. Sono solo alcune delle sue opere che ci hanno negli anni fatto compagnia e insegnato a guardare Hieronymus Bosch, le Avanguardie del ‘900 la Pop-Art, il Concettuale, l’Arte Concreta e Materica contemporanea con gli occhi lucidi e anticonformisti di chi guarda all’opera dell’artista consapevole che il Bello non è solo “cosa in sé” ma cosa che deve suscitare emozione, che deve piacere.
Fermo restando che non esiste una libertà assoluta, senza canoni, ma che l’Arte per essere tale deve comunque rispondere a delle qualità oggettive. Altrimenti è più corretto definirla “creatività”. La sua laurea in medicina, e l’esperienza a contatto con la malattia gli suscitò delle intuizioni di profonda empatia con la realtà. Ha molto riflettuto su quello che lui definiva “L’intervallo perduto” l’assenza nella nostra vita contemporanea del momento del silenzio, dell’incombenza del suono sul bisogno naturale dell’uomo di istanti di pausa; per vivere, per pensare, per esaudire i propri frammenti di libertà dai vincoli assordanti del consumismo. E’ degli anni ’80 l’intuizione del rumore che sovrasta il silenzio, del caos che interrompe la quiete perduta, del concetto di un vuoto necessario ma invaso dalla pienezza del non-senso, del presente imperioso che cancella il passato e annulla il futuro. Ha prefigurato la nostra confusa crisi esistenziale prima che ci arrivassero i sociologi teorici della “Società Liquida”. Dalla critica del cattivo gusto arrivò ad una spregiudicata visione del Kitsch. “Spesso il Kitsch si identifica con alcune correnti artistiche operanti in senso retrogrado, anche se con programmi in apparenza socialmente e politicamente progressisti. Non tutto è accettabile, ma tutto è fonte di informazione e di persuasione sociale non trascurabile”, sosteneva.
La mercificazione dell’oggetto artistico lo ha spinto ad indagare a fondo sul significato della fruizione dell’Arte, e sul suo significato di sollievo alle fatiche del quotidiano. Scrive nel 1973: “Fintanto che la società capitalistica continuerà a mercificare le opere -anche quando queste sono state ideate senza un preciso intento estetico-, non sarà possibile liberarsi di questi inciampi, come d’altro canto non sarà possibile farlo fintanto che in paesi apparentemente non capitalisti si continuerà a imporre dall’alto un determinato credo estetico ben lontano dalle esigenze creative del singolo e delle masse”. Attendiamo ancora un’era Utopica, forse possibile, dove vedere “fiorire opere esteticamente pregnanti e universalmente accessibili”. Intanto osserviamo con disincanto ma con curiosità il panorama artistico che intorno a noi si disvela. C’è sempre un diaframma che separa “il bello dal brutto, la sincerità dal falso, il vero dall’artefatto”.
Lo sguardo penetrante e limpido di Dorfles sapeva immediatamente distinguere l’arte autentica da quella catalogata e spacciata come “opera d’arte”, solo perché inserita nel giusto circuito economico preposto per la vendita dell’oggetto feticcio, capace di “deprimere l’attitudine estetica delle masse rendendole sempre più succube d’una ideologia borghese e consumistica”. Ci lascia con la sua ultima creazione: “Vitriol”, una serie di disegni del 2016 incentrati su un immaginifico personaggio, una specie di fantasma eroico e onirico. Vitriol, termine mutuato dall’alchimia ermetica, una sorta di dissolvimento della materia grezza per ricomporla in stato nobile. Per ricordarci che all’irrazionale si giunge solo dopo che la conoscenza razionale si è compiuta. Ci ha lasciati un grande uomo, ma ci restano i suoi preziosi libri e il suo esempio.