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Egitto, 54esimo rinvio per il processo a Shawkan mentre giornalista del Times viene arrestata e espulsa dal Paese

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Rinviato per la 54esima volta, al 31 marzo, il processo a Mahmoud Abou Zeid, mentre sale la tensione in vista del voto di domani delle presidenziali che vedono come unico candidato ‘reale’ il presidente uscente Fattah al Sisi è una giornalista del Times viene arrestata e espulsa. Il foreporter egiziano, noto come Shawkan, è ormai stremato da quattro anni e mezzo di prigione. Le sue condizioni di salute sono sempre più gravi.

Shawkan continua a essere vittima di quella che ormai si è trasformata in una sorta di stillicidio giudiziario nell’attesa che il lungo procedimento che lo vede imputato giunga al termine. In carcere da quando il 14 agosto 2013 fu arrestato mentre documentava la manifestazione dei Fratelli musulmani al Cairo in piazza Rabaa al-Adawiya, repressa in un massacro con almeno 817 morti, rischia la pena capitale. L’organizzazione Reporters sans frontieres (Rsf), che difende i diritti dei giornalisti, ha condannato la “totale sproporzione della sentenza proposta” e rinnovato l’appello per la sua liberazione.

La richiesta di condanna a morte per Shawkan e gli altri imputati, se confermata dalla Corte al termine di un processo politico di massa contro 700 persone, prevede l’impiccagione. “Adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio” sono solo alcune delle imputazioni rivolte al fotoreporter.

Accuse pretestuose per un giovane che nessun’altra ‘colpa’ ha commesso se non  di aver fatto il suo lavoro, quello del  giornalista.

In un report pubblicato alla fine di febbraio, l’Arabic Network for Human Rights Information (Anrhi) ha diffuso i dati sulle esecuzioni capitali ordinate in Egitto negli ultimi anni. Nel 2017 ci sono state 43 condanne a morte contro 358 cittadini, mentre nel 2016 erano state 15 e avevano riguardato 85 cittadini.

Solo tra l’8 dicembre 2017 e l’8 febbraio 2018, secondo dati della Egyptian Coordination of Rights and Freedoms, sono state eseguite 29 sentenze capitali.
Un’altra condanna a morte è’ stata emessa contro 21 persone accusate di terrorismo il 22 febbraio scorso, malgrado i moniti del Parlamento europeo e dell’organismo delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il parlamento egiziano, inoltre, ha approvato a inizio marzo un emendamento al codice penale che consentirà di punire con la pena capitale chi usa esplosivi in atti legati al terrorismo. Fino ad oggi questo reato era punito con il carcere a vita.

E mentre la situazione giudiziaria e dei diritti umani per migliaia di egiziani si aggrava sempre di più, i giornalisti internazionali che tentano di raccontare cosa avviene nel Paese vengono arrestati e espulsi.

Come nel caso di Bel Trew del Times, fermata e minacciata da un tribunale militare pronta a giudicarla e a condannarla. Arrestata a fine febbraio da poliziotti in borghese dopo un’intervista in un locale nel centro del Cairo la Trew è stata brutalmente cacciata dall’Egitto. Il Telegraph e il Guardian hanno rilanciato la vicenda raccontando che la collega ha denunciato di essere stata trattenuta per diverse ore senza avere la possibilità di contattare un legale o diplomatici britannici. Poi la ‘scelta’: o un “processo in un tribunale militare” o un volo per lasciare l’Egitto. “A meno di 24 ore dal fermo, mi hanno fatto salire su un aereo senza niente di più che i vestiti che avevo indosso”, scrive la giornalista nell’articolo sulla sua esperienza, “adoro questo Paese ma non posso tornarci e nessuno dice il perché. Ho vissuto in Egitto per sette anni, è la mia amata casa e non sono sicura di poterci tornare” ha poi scritto su Twitter la Trew a due giorni dalle elezioni presidenziali di lunedì nel Paese.

Le circostanze del suo fermo e le minacce contro di lei sono apparse da subito inconsistenti. La giornalista era convinta che  ci fosse un errore, basato su un malinteso. Ma non era così. Sono bastate poche ore per capire che ce l’avessero con lei per le sue domande scomode.

Dopo averla espulsa le autorità egiziane non le consentiranno mai più di tornare nel Paese.

Trattamento riservato a tutti gli operatori dell’informazione che provano a documentare soprusi e violazioni dei diritti umani, come nel caso dell’uccisione di Giulio Regeni, per il quale la famiglia, Amnesty International e decine di migliaia di persone, riunite nel collettivo GiulioSiamoNoi, continuano a chiedere verità e giustizia.

Siamo a cospetto dell’ennesimo tentativo di intimorire i media e mettere a tacere il loro lavoro.

Tutto questo è tristemente in linea con l’intensificarsi di un clima di oppressione che il presidente al-Sisi ha instaurato nei confronti  della stampa nazionale e internazionale. Secondo Committee to Protect Journalists allo scorso dicembre erano 20 i giornalisti egiziani in carcere, tra cui Shawkan. L’unico a rischiare la pena di morte. Almeno per ora.


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