Se in passato l’insediamento mafioso in Umbria è stato possibile grazie al minor controllo che le autorità regionali riponevano nel problema ritenendo probabilmente che non lo riguardasse, – facile persino oggi imbattersi in persone che ne negano l’esistenza -, negli ultimi anni è stata semplificata la strada d’accesso a causa dello spopolamento dell’Appennino e degli ultimi terremoti avvenuti nel 1997 e nel 2016. L’Umbria deve continuamente tenere alta la guardia, poiché la mafia c’è anche se non si vede, come sosteneva Cardella in merito alla ricostruzione post-sisma “la mafia ricicla denaro sporco in Umbria” tramite le aziende pulite e qualche cravattaro al suo libro paga, se deciderà di non mostrarsi prepotente come in altri luoghi di sicuro non rinuncerà a un buon affare una volta fiutato.
Infatti, le principali attività investigative della Dda di Perugia, secondo la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (Dna) del 2017, sono concentrate sul traffico di sostanze stupefacenti laddove il capoluogo “costituisce una piazza ‘di spaccio’ di riferimento importante per il mercato della droga nell’Italia centrale”, commercio illecito di sostanze dopanti; sulla infiltrazione dei gruppi mafiosi “varie indagini confermano l’accresciuta vitalità dei gruppi mafiosi, sia locali che di origine meridionale (…) si è accertata la presenza nel territorio di Ponte S. Giovanni di una enclave ‘ndranghetistica, legata alla cosca dei Farao di Cirò Marina (…) Significativa anche un’altra indagine, nata dalla denuncia di un notaio, di origine calabrese e con studio in Perugia, nei confronti di due soggetti, legati da vincolo di parentela con il capo e diversi componenti della cosca ‘ndranghetista Giglio”. Tra Arezzo e Perugia avevano sede legale alcuni gruppi societari che presumibilmente reimpiegavano denaro di provenienza illecita, in particolare emerse “la figura di Rodà Antonio, soggetto già attenzionato dalla Squadra Mobile di Genova, per i suoi rapporti, anche di affinità, con appartenenti alla ‘ndrangheta”. Si fanno presente anche indagini sul rilevo della tratta degli esseri umani e il traffico di rifiuti che culminò con il sequestro di parte della discarica di Pietramelina. In espansione anche cosche straniere in grado di affiliarsi alle nostrane sono quella albanese che “viene alimentata da un flusso costante di immigrazione clandestina, che trova collocazione nei settori della guardiania, dell’edilizia e dell’agricoltura”, magrebina, tunisina, nigeriana e cinese.
Per non lasciare nulla di intentato, all’inizio del 2017 il consiglio regionale approvò all’unanimità la creazione di un Osservatorio della criminalità organizzata in modo da rispondere in maniera sempre più netta al problema crescente, anche rispetto a quello che la Fondazione Caponnetto analizzava nel suo rapporto del 2015 dopo che il consiglio regionale stesso si ero dotato di una commissione antimafia interna: “Scelgono l’Umbria sodalizi mafiosi in fuga od in cerca di silenzio per la tranquillità che tale territorio offre e per la facilità nel riciclaggio del denaro sporco. Inoltre, il dramma del terremoto ha permesso ad imprese mafiose provenienti da altre regioni di infiltrarsi nella ricostruzione; (…) il mafioso crea un’impresa apparentemente legale i cui capitali passano attraverso un prestanome, mirando ad avere il controllo di particolari settori: tutti i gruppi presenti si occupano di riciclaggio di denaro sporco, poi i casalesi e i calabresi prendono anche i locali notturni, lo sfruttamento della prostituzione va agli albanesi, ci sono cinesi anche nel commercio, traffico di rifiuti per i camorristi, Cosa nostra e ‘ndrangheta per gli appalti pubblici, alberghi e ambiente qualche cosca italiana-locale”.
Sugli alberghi è bene ricordarsi l’arresto dell’ex senatore Pdl Nicola Di Girolamo nel 2010 che si vedeva imputato nell’inchiesta contro i vertici di Telecom e Fastweb e ritratto in alcune foto due anni prima durante una cena elettorale insieme al boss dell’ndrangheta Franco Pugliese, legato alla cosca degli Arena e lui, a sua volta, con Gennaro Mokbel, il faccendiere delle famiglie calabresi, per fare in modo che come scriveva Emilano Fittipladi per l’Espresso: “la ‘ndrangheta avrebbe messo il nome del senatore Di Girolamo sulle schede bianche usate per i seggi destinati agli italiani all’estero per farlo eleggere”.
Dai terreni confiscati alle agromafie
L’Umbria si trova al primo posto per alta attrattività turistico-culturale nella filiera agroalimentare, registrando un 24,1% di fatturato regionale dell’agroindustria (si intendono le fasi successive alla produzione) sul totale delle attività economiche, dato importante perché, secondo il quinto rapporto sulle Agromafie 2017 di Eurispes e Coldiretti, “costituisce un indicatore significativo dell’importanza strategica del suddetto settore nell’economia territoriale”. Perugia e Terni, in quanto province, nel 2016 si trovavano tuttavia ad un livello basso rispetto all’intensità del fenomeno dell’agromafia nel settore agroindustriale che sembra essere anche meno vulnerabile. A seconda della sofferenza di alcune produzioni tipiche locali (come ad esempio quelle di cereali, pomodoro, olio) su base socio-economica e climatica, si rileva quanto questa possa far crescere i “presupposti di una infiltrazione che esiste già nel territorio ma che finora è stata attiva soprattutto in altri contesti economici”.
Nel capitolo intitolato alle mafie nel piatto, del presente rapporto, si legge: “Tra tutti i settori ‘agromafiosi’, quello della ristorazione è forse il comparto più tradizionale e immediatamente percepito come tipico del fenomeno. In alcuni casi sono le stesse mafie a possedere addirittura franchising e dunque catene di ristoranti in varie città d’Italia e anche all’estero, forti dei capitali assicurati dai traffici illeciti collaterali (…) Cosa nostra manifesta un particolare interesse, ad esempio, nei confronti dell’acquisizione e della costituzione di aziende agricole, ma anche della grande distribuzione alimentare (centri commerciali e supermercati). La camorra mira a tutto il settore agroalimentare e alla ristorazione in modo specifico, con particolare riferimento ai grandi mercati ortofrutticoli italiani (Fondi, Ragusa e Milano in primis). La ’ndrangheta, per infiltrarsi nel comparto agroalimentare, sfrutta invece le connivenze all’interno della Pubblica amministrazione”.
Rapporti tra logge massoniche deviate e consorterie mafiose
Per avere inoltre un quadro più preciso della situazione, per quanto non esaustivo, riportiamo i rapporti di contiguità preoccupante tra la massoneria e la mafia, dato che soprattutto la mafia siciliana ha ripreso le mosse proprio dalla massoneria ottocentesca. Nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia dell’XI Legislatura (1992-1994) presieduta dall’On. Luciano Violante, si affermava che “il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private e rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi”.
La massoneria è un’associazione segreta di nascita remota, si stima sia comparsa per la prima volta nella Storia nella Scozia del XV secolo. Vi aderiscono quelli che nel tempo sono stati definiti cospiratori o custodi di segreti, nel quale l’interesse corporativo prevale sulla ricerca religiosa e solidale. I loro interventi, in senso non sempre figurato, possono influenzare le aree di potere. I luoghi di incontro, o logge, presenti in Umbria sono molte riunite in sei sedi del Grande Oriente, che fungono un po’ da circoscrizioni in “obbedienza”.
Nella relazione 2017 della Commissione Parlamentare di Inchiesta, presieduta da Rosy Bindi, sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta e Cosa nostra nella massoneria in Calabria e Sicilia, si legge di una prima commistione negli anni appena successivi alla “strategia della tensione” e precedenti allo scandalo P2: nel biennio 1977-79: “La massoneria aveva chiesto alla commissione di Cosa nostra di consentire l’affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose”. Negli anni Ottanta fu proprio Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina e poi collaboratore di giustizia, ad affermare che “alcuni uomini d’onore potevano essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per avere strade aperte ad un certo livello, per ottenere informazioni preziose provenienti da determinati circuiti”, come si legge dalla relazione di cui sopra.
Importante esempio di tali rapporti tra ‘ndrangheta calabrese e deviata massoneria umbra risale al 2011 quando nell’operazione “Decollo Money” vennero arrestate dieci persone legate al clan dei Mancuso a Vibo Valentia, compreso Domenico Macrì, un imprenditore calabrese da tempo residente a Città di Castello ed ex presidente del Lions Club ed esponente del Grande Oriente d’Italia. Nell’operazione disposta dall’allora Gip di Catanzaro Tiziana Macrì si scoprì un sodalizio criminoso nel riciclaggio e reimpiego dei proventi ricavati dal narcotraffico che dalla Calabria arrivavano fino alla Repubblica di San Marino. Un rapporto non solo sottovalutato, come ebbe a dire nel febbraio 2018 il Procuratore Capo di Catanzaro Nicola Gratteri, ma anche “istituzionalizzato negli anni ’70 con la creazione della ‘Santa’ e della figura del ‘Santista, che può far parte della ‘ndrangheta e della massoneria deviata (…) Si entra in contatto con i quadri della pubblica amministrazione e con i professionisti, in pratica una loggia massonica deviata partecipa alla co-gestione della cosa pubblica”. Cioè quello che ognuno di noi dovrebbe tenere a mente ed evitare, anche se apparentemente non collegato al territorio umbro, presumibilmente connesso.