Straordinario poeta e intellettuale, discutibile, discutibilissima persona Gabriele D’Annunzio, morto ottant’anni fa a Gardone Riviera (Brescia) all’età di 74 anni, al termine di un’esistenza trascorsa a combattere, a lanciare tendenze e a rendersi protagonista di molteplici avventure.
Ma chi è stato davvero il Vate della lingua italiana, l’immaginifico, colui che ha inventato, ad esempio, il termine “tramezzino” e il motto “In su la cima” che tuttora campeggia sulle copertine dei romanzi della Mondadori? Un eroe di guerra, un fascista convinto, ispiratore e sostenitore delle aberrazioni del regime, un intellettuale prolifico e poliedrico, un gran donnaiolo, un estremista, un sognatore, un idealista o un personaggio dalle molte virtù e dai numerosi punti oscuri? La risposta più sensata è che il pescarese D’Annunzio sia stato tutte queste cose insieme, che abbia vissuto con un’intensità straordinaria, amato molte donne, lottato su più fronti, costruito un immaginario nuovo e tuttora attuale alla luce del dannunzianesimo corrente e, infine, lasciato in eredità all’Italia e al mondo liriche struggenti e meritevoli della massima attenzione.
D’Annunzio, in poche parole, era un uomo che ascoltava la lingua, una figura a metà fra il poeta e il cantautore, un precursore anche in questo, sempre avanti, troppo avanti, spaventosamente egocentrico, notevolmente apprezzato, iperbolico, retorico fino a risultare quasi stucchevole, capace di incidere come pochi altri autori sul panorama culturale italiano e di restare al centro dell’attenzione anche dopo la sua morte, resistendo in buona parte alla “damnatio memoriae” che si è abbattuta nei decenni successivi su parecchi simboli di quella drammatica stagione.
Un uomo nato per dominare e per cambiare lo stato delle cose: questo è stato D’Annunzio e va detto che non è assurdo nutrire un debito di gratitudine nei suoi confronti. Poi c’è stato anche il D’Annunzio politico, il D’Annunzio avanguardista, il D’Annunzio autore di gesti non solo non condivisibili ma francamente spregevoli, intriso com’era di quello spirito interventista che ha trascinato l’italia nel gorgo di una guerra dalla quale è derivato il fascismo e che ha poi permeato la predicazione pseudo-ideologica del regime.
È bene, tuttavia, tenere distinti i due profili, non fare confusione, astenersi da giudizi settari e privi di senso, non confondere l’opera dannunziana con le sue idee, benché mi renda conto che non sia semplicissimo tenere separati i due ambiti, e pensare a quest’uomo dall’indubbio fascino e dall’incredibile rilevanza come a una personalità tra le più complesse ed eclettiche della mattanza globale che è stata la prima metà del Novecento. La storia lo ha già giudicato e sostanzialmente, sia pur non del tutto, assolto. Non ci resta che conoscerlo e studiarlo a fondo, comprendendone il valore ed evitando quello sguardo totalizzante che induce spesso a commettere l’errore di non distinguere più l’uomo nella sua essenza dal simbolo che incarna o dal vessillo che ha scelto di innalzare.
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