Che ci voglia la morte di un altro giornalista in Europa, come Jan Kuciak e della compagna Martina, a distanza di soli quattro mesi dall’omicidio di Daphne Caruana Galizia, per far comprendere all’opinione pubblica internazionale, ma soprattutto a quella italiana, la profondità delle infiltrazioni della corruzione, delle mafie e della ’ndrangheta, che condiziona la vita degli Stati europei, ha dell’assurdo. E che ci sia necessità di inchieste indipendenti, imparziali, sulla morte dei giornalisti uccisi collegati alla ‘ndrangheta, come ha chiesto non a caso, il figlio della giornalista maltese, Mattew Caruana Galizia, in queste ore, con ministri e primi ministri costretti a dimettersi o difendersi dalle accuse, dovrebbe darci l’idea della gravità della situazione.
E in Italia? Perché questi argomenti non sono all’ordine del giorno delle agende politiche e delle cronache? C’è chi questi fatti li conosce bene, ne scrive e li documenta da tempo come Michele Albanese, giornalista del Quotidiano del Sud, ormai sotto scorta da quattro anni, minacciato dalla ’ndrangheta per lo scoop sull’inchino della Madonna delle Grazie, sotto la casa del boss a Oppido Mamertina. Che lo fa da quella Calabria, che vorrebbe essere libera, ma che continua ad essere isolata, ai margini della cronaca.
“Io insisto sul fatto che c’è bisogno di illuminare questa terra e devono farlo i media nazionali” ha dichiarato ieri Michele a Articolo21. Il suo appello deve scuoterci, tutti. Dobbiamo essere in prima linea accanto a lui, e con i tanti altri colleghi che si battono per fare luce sul sistema di corruzione che imbriglia il paese, con ramificazioni internazionali sempre più forti, come gli avvenimenti di queste ore, dimostrano ancora una volta.
Occorre creare alleanze, unire metodi investigativi, studiare e aprire piste sulla cappa mafiosa. Così come del resto stava facendo proprio Jan Kuciak, unendosi a diversi team di giornalisti indipendenti come Organised Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), il Czech Centre for Investigative Journalism (CCIJ), the Investigative Reporting Project Italy, e Aktuality.SK, la squadra di giornalisti investigativi in Slovacchia con cui Kuciak lavorava quando è stato ucciso. A loro dobbiamo, infatti, la pubblicazione dell’inchiesta a cui stava lavorando, tradotta da Il dispaccio in italiano, in queste ore.
Intanto, sono settimane che si parla di “scorta mediatica” per i giornalisti minacciati dalle mafie in Italia, come è stato per Federica Angeli al processo contro il Clan Spada, che non è rimasta sola. Anche per questo bisogna coinvolgere la società civile, i cittadini. Così come nelle scorse settimane lo si è fatto in casa FNSI, in occasione di Contromafie, l’assise dell’antimafia civile, voluta da Libera. Ma occorre non far cadere il silenzio, non spegnere le luci. E bisogna anche tornare in Calabria per sostenere la Calabria onesta e libera che in solitudine si confronta ogni giorno con la ‘ndragheta. Quella stessa ‘ndrangheta che al nord è diventata “colletto bianco” e che è entrata nel tessuto produttivo lombardo ed emiliano, come il processo Aemilia sta a testimoniare. Dove, ricordiamolo, i legali, tra cui quelli che difendono alcuni imputati del maxi processo per ‘ndrangheta in corso a Reggio Emilia, hanno chiesto e ottenuto la creazione di un “Osservatorio sull’informazione giudiziaria”. Il processo alla stampa prima di quello alla ‘ndrangheta. Questa è l’aria che si respira in Italia, non lo dimentichiamo.
Rosy Battaglia, giornalista freelance, Cittadini Reattivi