C’è una foto di Ilaria che colpisce tra tutte quelle che Luciana, la sua mamma, tiene su un tavolino in salotto. Chissà quante volte l’ha guardata, in questi anni. La sua Ilaria, cristallizzata nel ricordo e in quell’immagine, la sua camicia blu, lo zaino sulle spalle, i lunghi capelli racconti. Sembra pensierosa mentre guarda lontano. In mano, il suo taccuino rosso… Quel taccuino lo ritroverà un uomo, Giancarlo Marocchino, il giorno in cui Ilaria viene ammazzata con il suo operatore Miran Hrovatin.
Sono passati 24 anni. Nessuna verità. Nessuna giustizia. Per la Procura di Roma è impossibile risalire agli esecutori e al movente: per questo ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Rimane però, indelebile, la parola “depistaggio” messa nera su bianco dalla Corte di Perugia nelle motivazioni dell’assoluzione di Hashi Omar Hassan nel processo di revisione. Hashi, ricordiamo, è il giovane somalo che per quel duplice omicidio ha passato in carcere 17 anni. Innocente. Condannato sulla base di una testimonianza infondata e pilotata. Quella di un suo connazionale, Ahmad Ali Rage detto Gelle, che poi scompare. Diventa irreperibile. Non si presenta al processo, non testimonia, non conferma le accuse, non fa alcun confronto con Hashi. Semplicemente, Gelle, se ne va via.
Altri tre somali, invece, al processo si presentano eccome e affermano senza dubbio che il giorno dell’agguato a Ilaria e Miran, Hashi era a 300 chilometri da Mogadiscio, come lui ha sempre sostenuto. E così, in primo grado, il giovane somalo viene assolto. Giudizio ribaltato in secondo grado e confermato in Cassazione.
Hashi viene condannato a 26 anni di carcere per un reato che non ha commesso. Passano gli anni e il ragazzo somalo è sempre in carcere, per una dichiarazione falsa. Gelle, intanto, nessuno lo va a cercare. Fino a quando, tre anni fa, a cercarlo ci siamo andati noi di “Chi l’ha visto?” E – dopo dieci mesi di ricerche – l’abbiamo trovato in una città dell’Inghilterra, dove vive con la sua famiglia e fa l’autista di mezzi pubblici. Ecco a noi, Gelle, ha raccontato che lui non aveva visto l’attentato… che non era un testimone… e che gli erano stati promessi soldi per mentire, perché gli italiani avevano fretta di chiudere il caso “e in quel modo i genitori di Ilaria avrebbero potuto trovare pace”.
Grazie a queste affermazioni Hashi Omar Hassan ha potuto chiedere la revisione del processo. Ed – nell’ottobre del 2016 – è stato assolto dalla Corte di Perugia, che nelle trenta pagine di motivazioni mette nero su bianco la parola “depistaggio”. Proprio così. Depistaggio. Hashi è stato condannato sulla base di una testimonianza infondata e pilotata: Gelle, è stato indotto a dire il falso. Un reato gravissimo.
La Corte di Perugia su questo punto è chiara: Gelle è un “soggetto che ben potrebbe essere stato coinvolto in una attività di depistaggio di ampia portata […] attività di depistaggio che possono essere avvalorate dalle modalità della fuga del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”. Dunque il punto, per la Corte di Perugia, è questo: Gelle è stato cercato per mettere in atto un depistaggio – ha depistato – e poi gli è stato permesso di scomparire, tanto che nessuno l’ha concretamente cercato. Ma se Hashi è innocente, e Gelle è stato pilotato… significa che si arriverà alla verità sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin?
Torniamo all’ottobre 1997 – quando Gelle arriva in Italia. A portarlo qui dalla Somalia – come testimone del duplice omicidio – è l’ambasciatore Giuseppe Cassini. Gelle viene sentito da Lamberto Giannini, allora capo della Digos, e Franco Ionta, il pm titolare delle indagini. In un interrogatorio di cui non esiste registrazione, o una trascrizione in somalo, ma solo una traduzione in italiano – Gelle descrive una scena dell’agguato con Ilaria seduta sul sedile anteriore e Miran su quello posteriore. È falso, bastava vedere le immagini dell’esecuzione per accorgersene… quante volte, tutti noi, abbiamo guardato quel filmato…
Ma c’è dell’altro. Gelle, al microfono di “Chi l’ha visto?” racconta che una o due volte la settimana “veniva da me un uomo che mi aveva presentato Cassini… Mi dava giusto i soldi per sopravvivere, per stare in Italia, perché il lavoro lo dovevo ancora fare… il lavoro, ovvero andare a processo, testimoniare e indicare il colpevole”. Non solo. Un uomo del Ministero dell’Interno chiede a un tale – Giuseppe Scomparin, titolare di un’officina che ripara automobili proprio per il Ministero – di far lavorare Gelle. Scomparin non sa neppure chi sia e pensa “di fare un favore personale a qualche pezzo grosso della Polizia”.
Scomparin – però – non può mettere in regola Gelle, ma questo non sembra essere un problema. “Mi dissero che tale assunzione avrebbe dovuto avere la durata di quattro-cinque mesi” racconta Scomparin alla Commissione di inchiesta. “Ricordo che le assenze dal posto di lavoro da parte di questo ragazzo venivano giustificate mediante colloquio telefonico da parte di un interlocutore italiano che chiamava dal Ministero. Mi dissero che il ragazzo non sarebbe venuto per tre/quattro giorni. Alla scadenza di tale lasso temporale una nuova conversazione telefonica mi preannunciò che il ragazzo non sarebbe più venuto al lavoro”.
Tutto questo avviene nei giorni di Natale del ’97. Dunque sembrerebbe che qualcuno – qualcuno che lavora per Ministero dell’Interno – sappia che Gelle se ne sia andato. Chi è? È possibile accertarlo, oggi? Queste condotte – per la Corte di Perugia – “generano sconcerto: Gelle era un teste chiave […] costantemente sotto controllo […] E malgrado ciò, di punto in bianco, era scomparso, all’apparenza senza lasciare traccia, eludendo la sorveglianza e senza che risultino essere state effettuate ricerche mirate per cercare di rintracciarlo. Ricerche che proficuamente sono state svolte anni dopo, senza neppure particolare difficoltà, non dalle forze di polizia, ma da giornalisti della Rai”. Da noi, appunto…
Chi ha gestito Gelle? Chi lo doveva sorvegliare? Chi ha permesso che scappasse? O forse è stato addirittura aiutato in questa fuga? Chi ha preso parte a questo depistaggio? “Non credo più nella giustizia di questo Paese”, ci dice Luciana, mentre guarda la foto della sua Ilaria. “Qualche volta mi vergogno anche…” Luciana – e non solo lei – pensava che dopo le motivazioni della sentenza di Perugia qualcosa succedesse. Ma, a quanto pare, non è così. La Procura di Roma dopo aver aperto un nuovo fascicolo ha chiesto l’archiviazione. Ma noi non dobbiamo archiviare. Non possiamo.