Aldo Moro: quel 16 marzo 1978

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L’allora presidente della Dc fu rapito da un commando delle Br che massacrò i cinque agenti della scorta in via Mario Fani a Roma. L’Italia non fu più la stessa. “Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi.” 

(Aldo Moro)

Un giorno come un altro e l’Italia cambiò

Per un Paese spesso considerato immobile, immutabile e paralizzato da “poteri forti” e “super caste” il 16 marzo del 1978 segnò definitivamente un punto di non ritorno. Quel giorno, quella mattina, l’Italia cambiò per sempre, non fu più la stessa e ancora oggi a quarant’anni da quel drammatico evento, tutti noi ne paghiamo le conseguenze. Quel giorno, il 16 marzo del 1978 era un giovedì come tanti altri per il nostro Paese. Era una normale mattinata di lavoro per impiegati, professionisti, operai, insegnanti e una tipica giornata di scuola per i milioni di ragazzi delle elementari, medie, superiori e per gli universitari.

Per il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro il 16 marzo era invece un giorno molto importante, significativo e carico di incognite. Lo statista pugliese infatti si stava recando a Montecitorio per partecipare al dibattito parlamentare sul nuovo governo Andreotti che avrebbe visto per la prima volta nella storia repubblicana l’appoggio esterno del Partito Comunista di Enrico Berlinguer. Si trattava di una svolta storica.

Ma chi era Aldo Moro? Dal 1959, anno in cui divenne segretario della Democrazia cristiana, al 1978 Moro fu uno dei più importanti uomini politici italiani. Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, rappresentò il Paese nel mondo; ma soprattutto fu colui che maggiormente contribuì a dare forma all’avvicinamento politico tra Dc e Pci, comprendendone le ragioni profonde e prevedendone le soluzioni. Mite e duttile nelle modalità d’incontro, ma anche coerente nei ragionamenti e tenace nelle convinzioni, Moro fu altro: un intellettuale, un giurista, un credente, un fine interprete delle tensioni e delle passioni del suo tempo, un uomo del dialogo e della ragione. Torniamo ora a quel 16 marzo.

Improvvisamente una notizia paralizzò l’intero Paese. Il primo organo d’informazione a dare la la notizia fu l’edizione straordinaria del Gr di Radio 2 con l’inconfondibile voce di Gustavo Selva che alle 9.25 disse con un tono emozionato: “Abbiamo ricevuto ora una drammatica notizia che ha dell’incredibile e che, anche se non ha trovato finora una conferma ufficiale, purtroppo sembra vera: il presidente della Democrazia cristiana, on. Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi. L’inaudito, ripetiamo, incredibile episodio è avvenuto davanti all’abitazione del parlamentare nella zona della Camilluccia”.

Il “113” aveva ricevuto una prima telefonata alle 9.02, la quale riferiva di una sparatoria in via Fani. Pochi minuti dopo alcune volanti giunsero sul posto per allontanare la folla che era accorsa sul posto. Quello che videro gli agenti di polizia fu una scena agghiacciante. In via Mario Fani era ferma con gli sportelli aperti la Fiat 130 non blindata dell’onorevole Aldo Moro e l’Alfetta bianca della sua scorta entrambe crivellate di proiettili. Sull’asfalto frammenti dei vetri delle auto, decine di bossoli di armi da fuoco e soprattutto il corpo dell’agente Raffaele Iozzino riverso in un lago di sangue privo di vita. All’interno dell’Alfetta e della 130 i corpi senza vita degli altri quattro agenti della scorta di Aldo Moro: i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci; gli agenti di polizia Francesco Zizzi e Giulio Rivera. Del presidente della Democrazia Cristiana nessuna traccia. I quattro agenti fulminati nelle auto non avevano nemmeno le armi in mano. Erano stati uccisi all’istante. Solamente Raffaele Iozzini era riuscito ad uscire dalla macchina e pistola in mano aveva tentato una reazione. Ma era stato crivellato di colpi e finito con un colpo alla nuca.

Alle 9.10 la Questura diramò la seguente direttiva: “I malviventi che hanno prevelato l’onorevole Aldo Moro sarebbero fuggiti a bordo di una Fiat 128 bianca targata “Roma M53995”. Le comunicazioni delle forze dell’ordine sono febbrili. Oltre alla Fiat 128 bianca in cui erano stati segnalati quattro giovani a bordo, anche una auto Fiat 132 blu targata “Roma P79560” e una “moto Honda scura”. Alle 9:15 la Questura comunicò la notizia dell’agguato di via Fani alla centrale operativa della Legione dei carabinieri di Roma. Le prime notizie raggiunsero il Ministero dell’Interno, comunicate dal questore di Roma Emanuele De Francesco che decise di recarsi subito in via Fani insieme al capo della Digos Domenico Spinella. Il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga fu informato alle 9:20 dal Capo della Polizia Giuseppe Parlato, mentre già in precedenza il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti aveva ricevuto la drammatica notizia nel corso della cerimonia di giuramento dei sottosegretari del suo nuovo Governo: il segretario della Dc Benigno Zaccagnini seppe dell’accaduto sulle scale di Montecitorio dove si era recato per il previsto dibattito parlamentare.

Aldo Moro nelle mani delle Brigate Rosse

Poco dopo le dieci di mattina ogni dubbio cadde quando una telefonata anonima giunse al centralino dell’agenzia Ansa a Roma: il messaggio comunicato dallo sconosciuto riferiva con decisione che le Brigate Rosse avevano “sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga”. L’agenzia Ansa trasmise alle ore 10 e 16 il comunicato dei brigatisti. Due minuti prima, alle 10 e 14, era già stato comunicato alla redazione milanese dell’Ansa da un’altra telefonata anonima che le Brigate Rosse avevano “Portato l’attacco al cuore dello stato” e che “l’onorevole Moro è solo l’inizio”.

Le farneticanti rivendicazioni e le notizie dell’attentato vennero ben presto diffuse anche dalle televisioni. Poco dopo le ore 10 Bruno Vespa aprì l’edizione straordinaria del TG1 e diede lettura del comunicato brigatista all’agenzia Ansa a Roma, e pochi minuti dopo Paolo Frajese in collegamento da via Fani diede una prima drammatica descrizione del luogo dell’agguato con la devastanti immagini in diretta della scena della strage in via Mario Fani. La voce del giornalista era spesso rotta dall’emozione ed esitante nel descrivere la scena di un vero e proprio atto di guerra delle Br nei confronti delle istituzioni democratiche.

Intanto il Paese era paralizzato, incredulo. L’atmosfera era surreale. I Sindacati avevano proclamato lo sciopero generale. Gli studenti erano stati riportati a casa dai genitori. I politici sembravano “assediati” a Montecitorio. Nella sede simbolo della democrazia regnava un’atmosfera spettrale, peggiore di quella dell’8 settembre del 1943. Nessuna sapeva cosa fare. La maggior parte dei politici in aula erano colti dal panico e della paura. Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga era quello con le maggiori pressioni. Doveva infatti organizzare e gestire il complesso “castello” delle forze dell’ordine, sicuramente impreparate nell’affrontare una crisi così delicata e soprattutto imprevista. Ecco un esempio del caos e dell’impreparazione dell’intelligence italiana di quel drammatico 16 marzo 1978. Alle 11 e 30 il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga convocò al Viminale i rappresentanti della Difesa, Attilio Ruffini, delle Finanze, Franco Maria Malfatti, e di Grazia e Giustizia, Franco Bonifacio, insieme al sottosegretario agli Interni, ai capi dei servizi di sicurezza, e ai capi della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, per organizzare il comitato tecnico-operativo, la struttura preposta al coordinamento delle indagini, delle ricerche dell’ostaggio, oltre a decidere e attuare le misure destinate a rispondere all’offensiva terroristica. L’attività del Ministero dell’Interno era iniziata in precedenza con un grossolano errore: il capo dell’Ucigos, Antonio Fariello, aveva diramato a tutti gli organi dipendenti nazionali la disposizione di attuare il “Piano Zero”; in realtà questo sedicente piano non esisteva e faceva riferimento a disposizioni di mobilitazione previste in casi di emergenza per la sola Provincia di Sassari. Solo alle ore 12 e15 fu diramata alle questure la comunicazione che annullava la precedente disposizione sull’inesistente “Piano Zero”.

La politica uscì dal “torpore” solo poco dopo le 13 quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti illustrò il programma del suo governo. Ugo La Malfa (Pri)  parlò di “Stato di guerra” mentre Giorgio Almirante (Msi) chiese di ripristinare la pena di morte per i brigatisti che avevano rapito Aldo Moro. In questa giornata eccezionale il Governo di Giulio Andreotti con l’appoggio esterno del Pci ricevette la fiducia alle 20.30.

Il Ministero dell’Interno diffuse i nomi e le foto di diciannove presunti terroristi ricercati e probabilmente coinvolti. la lista presentava gravi errori e includeva anche criminali comuni, due persone già detenute e militanti di altri gruppi eversivi estranei ai fatti (uno di questi, Antonio Bellavita, risiedeva a Parigi da otto anni). Cinque persone incluse nella lista erano realmente responsabili dell’agguato di via Fani e del sequestro. Si trattava di brigatisti conosciuti e clandestini da diversi anni: Mario Moretti (Quello che in seguito disse di essere la mente del sequestro), Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Rocco Micaletto. In questa lista entrarono poco dopo anche altre figure di rilievo nel sequestro e della relativa trattativa: Adriana Faranda,Valerio Morucci e Barbara Balzerani.

Dal 17 marzo al 9 maggio del 1978 l’Italia fu come spaccata in due parti. Da un lato la classe politica assolutamente incapace, balbettante, impreparata e soprattutto disunita nel tentare di salvare Aldo Moro e dall’altra parte il popolo disorientato e scosso quasi ammutolito davanti alla drammatica “rappresentazione teatrale” del martirio di un uomo mite come l’allora presidente della Democrazia Cristiana.

Inutile sperare di ottenere la verità. I quattro processi sul sequestro Moro e le commissioni d’inchiesta non hanno mai chiarito i tanti interrogativi, le imbarazzanti mancanze e soprattutto il vergognoso silenzio dei nove brigatisti che parteciparono al blitz di via Mario Fani. Loro ormai sono gli unici depositari dei fatti del 16 marzo del 1978.

Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo”.

(Aldo Moro)

Da dazebao


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