È difficile scrivere di Mimmo Càndito. È difficile perché gli volevo bene e non vorrei dire cose banali. Sento il peso delle parole, ma non devo averne paura, come diceva Mimmo parlando del suo tumore: «Le parole sono la chiave per leggere autenticamente la realtà». Prima che un grande giornalista, uno dei soli tre viventi i cui scritti furono inseriti nei Meridiani sulla storia del giornalismo italiano, Mimmo era un grande uomo. La sua umanità e la sua capacità di capire ed entrare in contatto col prossimo erano uniche. E sono state proprio queste a farlo diventare uno dei più grandi reporter di guerra che l’Italia abbia mai avuto. Secondo me, ma sono di parte, in assoluto il migliore. Era come vedere giocare Maradona. Mimmo era solare, coinvolgente, intelligente, curioso, empatico, ironico, profondo, illuminante, acuto. Pensate a una qualità umana e Mimmo ce l’aveva. Tutto questo distribuito in uomo un metro e novanta con l’educazione ottocentesca.
La prima volta che l’ho visto, nel 2004 per chiedergli di accettare la nomina a presidente della sezione italiana di Reporter Senza Frontiere di cui ero vicepresidente, rimasi colpito dalla sua dolcezza nei confronti della moglie Marinella (anche lei una giornalista de La Stampa). I gesti e gli sguardi raccontavano di un amore molto profondo come raramente ce ne sono. Ho letto su alcuni giornali online oggi «era molto legato alla moglie». È riduttivo: era innamoratissimo.
Ci incontravamo ciclicamente, spesso a Parigi per le riunioni di Rsf, e ci telefonavamo. Non voglio raccontare aneddoti, penso che non gli avrebbe fatto piacere, ma sarebbe stato indulgente nel sapere che cedo solo a un paio. Mi ricordo della festa dei 20 anni di Rsf nella sala delle feste del Senato francese. Dopo la cerimonia raggiungemmo Marinella a Le boeuf sur toi, un elegante ristorante degli anno ‘20 sugli Champs-Élysées, e lei mi disse «L’unica altra volta che l’ho visto con la cravatta fu quando ci sposammo». Odiava le cravatte Mimmo. E aveva un piccolo vezzo: non mi ha mai voluto dire la sua data di nascita. Sapeva che la sapevo, ma ogni volta svicolava. A Perugia, qualche anno fa, consegnammo a Ettore Mo il premio Rsf alla carriera. A cena, con Giovanni Porzio e Gabriella Simoni, Ettore raccontò di quando Mimmo aveva organizzato l’attraversamento dei reporter italiani di una strada bersaglio dei cecchini. Erano tutti riparati dietro un tank, Mimmo guardava e poi dava il via. Tutti correvano chinandosi e quando toccò a Mo, che non è proprio un gigante, mentre attraversava la strada gli urlò «Ettore non è il caso che tu ti pieghi». Mimmo era così: sapeva coniugare leggerezza e serietà. E aveva una forza di volontà indomita.
L’ultima volta che l’ho visto fu qualche mese fa nel cortile del Corriere della Sera. Era con Antonio Ferrari. Ci siamo abbracciati. Respirava a fatica, ma era sempre sorridente. Del tumore non abbiamo nemmeno parlato. Per me è stato un maestro, oltre che un amico. Più volte ho ripensato, nel mio lavoro, ai suoi insegnamenti e al suo rigore verso i fatti e verso se stesso. «Non c’è giornalismo senza contatto profondo con la realtà» amava dire.
Da oggi siamo tutti più poveri perché abbiamo perso una delle voci più limpide del giornalismo italiano.