In occasione della Giornata internazionale della Donna, riprendiamo dall’Osservatorio Balcani Caucaso-Transeuropa l’intervista a Ceyda Ulukaya, giornalista turca e ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia, un originale e apprezzato progetto di datajournalism. L’intervista, firmata da Fazila Mat, è pubblicata da OBC in associazione con European Data Journalism Network e distribuito con licenza (CC BY-SA 4.0) .
Ceyda Ulukaya, è giornalista ed ideatrice della prima mappa del femminicidio in Turchia. Il progetto, realizzato in collaborazione con Sevil Şeten e Yakup Çetinkaya, è stato nel 2016 tra i finalisti dei Data Journalism Awards, nella sezione Small Newsroom. La mappa copre il periodo tra il 2010 e il 2017, in cui sono state uccise almeno 1964 donne. Oltre a fornire la data e il luogo degli omicidi, ha dei filtri qualitativi che indicano le generalità delle donne uccise, il tipo di rapporto che gli omicidi avevano con le vittime, il “pretesto” dell’omicidio e l’esito per quanto riguarda l’omicida. Per la giornalista si tratta quasi di un bollettino di guerra. Nostra intervista.
Com’è nata l’idea di questo progetto?
È nata verso la fine del 2014, quando ho iniziato ad occuparmi di data journalism. Conoscevo il centro Bianet ed ero al corrente dei loro report annuali sulla violenza maschile perché avevo svolto lì uno stage. Conseguentemente ho iniziato ad analizzare la Convenzione di Istanbul, secondo la quale gli Stati firmatari sono tenuti a raccogliere i dati relativi agli omicidi delle donne. L’idea era quella di creare una mappa che potesse mettere in luce la gravità del fenomeno in maniera semplice e immediata, soprattutto per chi non si occupa della questione in maniera specialistica. Ho presentato domanda al programma di giornalismo investigativo Objective della piattaforma P24, che mi ha assegnato un fondo per portare avanti il lavoro, durato un anno. Il sito è stato poi pubblicato per la prima volta il 25 novembre 2015. Mi piacerebbe arrivare a coprire almeno 10 anni, fino al 2020, ma è necessario trovare nuovi finanziamenti.
Su quali fonti ha condotto la raccolta dei dati?
All’inizio avevo immaginato di poter ottenere i dati che mi servivano presentando domanda ai vari ministeri, sulla base del diritto di accesso alle informazioni pubbliche. Speravo così di ricavare anche delle informazioni dettagliate sulle donne. Purtroppo però, nessuna delle domande che ho presentato ha avuto risposta. Ciascuna delle sedi interpellate mi ha indirizzato all’altra, dicendomi di rivolgere la richiesta al ministero della Giustizia, alla gendarmeria, alla questura, al ministero dell’Interno… In ultima istanza mi è stato detto che i dati richiesti rendevano necessario un lavoro aggiuntivo e dunque non era possibile comunicarli.
Ma i ministeri non dispongono di dati propri?
I ministeri, soprattutto quello delle Politiche per la famiglia, pubblicano periodicamente delle statistiche sul tema. Addirittura nel 2009, quest’ultimo aveva comunicato che c’era stato un aumento del 1400% negli omicidi delle donne, suscitando un grande polverone. Il ministero ha poi continuato ad aggiornare quei dati, con numeri che sono diventati molto più “accettabili”. Tuttavia, quando ho presentato domanda per avere accesso a questa informazione, mi è stato detto che non esiste un simile dato. Quindi non è chiaro se ne siano effettivamente in possesso. D’altra parte alcune organizzazioni di donne e la stessa Bianet hanno iniziato a contare i casi di femminicidio proprio a causa di questa incongruenza. Quindi, di fronte a una simile difficoltà, e volendo adottare il massimo della trasparenza sul tema, i media sono diventati la fonte diretta da cui attingere questi dati.
Quale metodo ha utilizzato per la raccolta dei dati?
Ho utilizzato come punto di partenza i bollettini di Bianet sulla violenza maschile, che sono redatti in forma di rapporto. In questi rapporti viene detto, ad esempio, che una donna, identificata con delle iniziali, è stata uccisa per accoltellamento in una data città. In particolare, nei casi un po’ più datati si fa spesso ricorso alle iniziali delle donne uccise. Per ciascuno di questi casi, quando mancavano informazioni, ho proceduto a fare una ricerca su Google, digitando le informazioni che avevo, o immaginando i titoli che i giornali locali avrebbero potuto dare al pezzo. In questo modo sono risalita alla notizia apparsa sulla stampa per ogni singolo caso. La prima mappatura comprendeva il periodo tra il 2010 e il 2015, mentre ora arriva a coprire i casi fino alla fine del 2017.
Pensa che i media riportino in maniera esaustiva i casi delle donne uccise?
Assolutamente no. Ed è per questo che nel fornire i numeri ribadiamo sempre che si tratta del numero minimo, che sono state uccise “almeno” un tot donne. Poi ci sono dei casi in cui le donne vengono indotte a suicidarsi. Anche su questo ogni tanto sono state riportate delle notizie, ma c’è indefinitezza sull’argomento e non si riesce a dire con esattezza quali e quanti casi rientrino in questa casistica. Molti altri omicidi vengono taciuti. Ad esempio il 25 novembre del 2017 ho preparato e inviato ai vari media un video assieme ad un comunicato che comprendeva i dati della mappa sul femminicidio. Secondo i dati della mappa Bayburt risultava come l’unica città dove non erano state uccise donne. E i media avevano riportato la notizia dicendo che Bayburt era la città ideale per loro. Ma qualche giorno dopo ho ricevuto un’email con cui mi veniva chiesto di rettificare questa immagine immeritata che avevo dato alla città, con il link ad una notizia su un delitto commesso lì contro una donna. Ci sono dunque dei casi in cui la notizia appare sui giornali locali, ma non raggiunge un pubblico più vasto e rimane perciò nell’ombra. Almeno però ora c’è un canale aggiuntivo dove le persone possono fare le loro segnalazioni.
Qual è il pretesto principale dei femminicidi in Turchia?
Al primo posto troviamo un pretesto “indefinito”. Questo significa che nel 22,4% dei casi conteggiati la notizia riportata sulla stampa non forniva informazioni sulla causa che avrebbe portato al delitto. Segue al secondo posto il pretesto della lite/discussione (nel 16,5% dei casi), ma anche questo è un movente estremamente vago. È infatti difficile pensare che negli altri casi non ci sia stata una discussione prima dell’omicidio. Sembra invece dare qualche elemento di riflessione la terza opzione, il “sospetto di tradimento”. Va tenuto conto che la categoria del “pretesto” è stata preparata sulla base delle dichiarazioni fatte dai responsabili degli omicidi. Ma vediamo spesso che sono in molti a dichiarare di aver ucciso per sospetto di tradimento perché i colpevoli sperano in tal modo di ridurre la pena. Altre attenuanti della pena sono la buona condotta – quando ad esempio l’uomo si presenta in tribunale indossando una cravatta e si dimostra remissivo di fronte al giudice. Vediamo che condanne all’ergastolo vengono ridotte a 8 anni, perché sono tenuti in conto la provocazione che gli uomini affermano di avere subito, la loro buona condotta davanti ai giudici e la legge sui crimini penali. Un altro, tra i pretesti di omicidio più frequenti, è il rifiuto da parte della donna di accettare la proposta di riconciliazione dell’uomo. Sono casi in cui ad esempio, l’uomo si reca dalla moglie, che è tornata a vivere a casa dei genitori. Il marito si presenta e chiede di far pace, ma ci va con la pistola, con l’idea che se non verrà accettato ucciderà la donna e, a volte, anche le persone che si trovano con lei in quel momento. Ma anche il fatto che una donna abbia riso, o che non abbia lavato il bucato, sono pretesti per ucciderle.
Chi sono gli uomini che commettono gli omicidi?
Al primo posto si collocano i mariti (40,6%), al secondo i fidanzati (11,4%). L’aggressore “sconosciuto” si trova all’ottavo posto, e rappresenta solo l’3,8% dei casi. I responsabili degli omicidi sono quasi tutti uomini che fanno parte della quotidianità della donna con la quale si trovano relazionati. Si tratta di una situazione tragica, perché troviamo moltissimi parenti di primo grado, inclusi padri, fratelli, generi e figli.
Cosa emerge invece nella sezione destinata all’esito degli omicidi?
Nel 59,7% dei casi, i colpevoli sono stati arrestati. Il secondo esito più frequente (17,6%) è il suicidio dell’assassino, seguito dalla resa alla polizia (11,5%). Nel 6,2% dei casi l’esito è “sconosciuto”, semplicemente perché non era riportato sul giornale esaminato. Non era possibile per me seguire tutto l’iter giudiziario dei singoli casi. Ma ci sono delle organizzazioni delle donne che lo fanno. Io però ho tenuto traccia di altri dati. Ho segnato se prima dell’omicidio c’era stato un periodo in cui la donna aveva cercato di separarsi o di divorziare dall’uomo. Oppure se aveva presentato un esposto alle autorità, o se si erano registrati precedenti episodi di violenza. La mappa indica che almeno 246 donne avevano notificato le minacce alle autorità, mentre 369 omicidi sono stati preceduti da eventi di violenza o di minaccia.
Qual è il quadro complessivo che emerge da questa mappa?
La stampa riporta questi omicidi come eventi di cronaca nera, come se fossero casi singoli, fatti tragici a sé stanti. Ma quando li osserviamo nel loro insieme emerge un unico schema ripetitivo. Questi omicidi si assomigliano tutti, hanno pretesti ed esecutori simili, che appartengono per la maggior parte alla cerchia familiare delle vittime. E questo ci dice molto sull’origine del problema e su come potrebbe essere contrastato. Ma la possibilità di contrastarlo dipende dall’intenzione. Volendo, a livello locale, nelle province dove c’è un numero più alto di omicidi si potrebbero sviluppare meccanismi di protezione per le donne, mentre a livello nazionale si potrebbero implementare misure legali più efficienti. Ad esempio si potrebbe fare in modo che il pretesto del sospetto di tradimento non sia più un’attenuante. La Convenzione di Istanbul è uno strumento molto importante, impone agli Stati di conteggiare gli omicidi delle donne, ma questo non viene fatto. Questa mappa dice tante cose, ma solo a chi le vuole ascoltare.