Ci si dovrebbe domandare: come siamo arrivati a questo punto?
I fascisti che tornano ad occupare le strade come se tutto fosse normale e significando quindi che la Costituzione e i suoi principi sono carta straccia. Una donna uccisa ogni due giorni, tanto che – visto che si va avanti così da anni e la situazione sembra peggiorare – si è dovuti ricorrere ad un termine “femminicidio” che porta con sé la forza dell’orrore, e della violenza gratuita e bestiale nei confronti delle donne. Competizioni elettorali basate sull’insulto, sull’arte del millantare, sulla provocazione, sull’uso distorto e malvagio di migranti e povere ragazze assassinate. E ancora, delinquenti che imbracciano armi come vendicatori solitari(ma non troppo solitari perché dietro certe cose c’è sempre un’ideologia idiota) in un Far West che ripercorre il peggior passato degli uomini senza legge. E ragazzi e genitori che prendono a sberle gli insegnanti perché… come osa un insegnante fare il suo dovere e mettere magari un voto insufficiente ad un compito insufficiente?
Senza retorica: come siamo arrivati a questo punto? Ad una società dove i termini più corretti per esprimerla sono: impunità, abuso di potere, ignoranza e arroganza, odio e mancanza di rispetto e regole. Dove ci si scanna su Facebook pur senza mai incontrarsi. Sembra che tutto ciò che covava sotto la cenere stia emergendo, che il vulcano sia ormai esploso lasciando miasmi e vittime e una sensazione di desolazione, impossibilità di reagire e fermare gli eventi, di sconcerto e paura.
È inutile far finta di nulla, chiudere gli occhi e sperare che le cose cambino. Niente cambia se NOI non cambiamo. Abbiamo vissuto nel benessere e lo abbiamo usato tutto, abbiamo vissuto nelle libertà e le stiamo umiliando tutte. Abbiamo vissuto nel diritto di parola e ormai queste parole le stiamo semplicemente vomitando. Uno schifo che però pare non ci nausei ancora abbastanza.
Eppure, proprio in questo sconcerto, in questo nulla camuffato dal rumore di parole senza senso e senza profondità, ci sono tante persone che fanno, scoprono, imparano, si sforzano quotidianamente. Per cambiare e migliorare se stessi, prima di lanciarsi in quel mondo che ha bisogno di loro.
Vi è mai capitato di sentire annunciare il nome del vincitore di un premio Nobel e dire: non lo conoscevo… ? Oppure seguire un’Olimpiade e vedere sul podio atleti di cui non avevate mai sentito parlare? Ecco questa è la grandezza dell’azione che non si svolge davanti a pubblico e telecamere – o peggio ancora su Facebook -. È la forza e il risultato di vite fatte di studio, allenamento, determinazione, spinta costante oltre il proprio limite. Ed è anche la grandezza di chi cerca la propria strada senza scorciatoie a prescindere dai mezzi, dalla condizione, dalla apparente mancanza di opportunità. Di persone così ce ne sono tante. Ovunque.
Non sono state e non saranno le parole ad aver plasmato persone come queste, è stata l’abnegazione, la fatica, il silenzio. E il valore che risiede in quello che si fa.
Mi viene in mente l’educatore giapponese Tsunesaburo Makiguchi e la sua “teoria del valore”, ispirata ai principi del Buddismo. In questa teoria emergono tre termini: bellezza, bene e guadagno.
Makiguchi era convinto che la vera felicità si trovasse nella creazione di valore. E che, a partire, dall’infanzia e dalla scuola ai bambini dovesse essere data la possibilità di esprimere la propria creatività. In maniera libera, autonoma, ma anche comunitaria. Non imparare a memoria, ma imparare a pensare. Non imparare a copiare ma imparare a creare. Non imparare a ubbidire ciecamente, ma imparare a rispettare. Creare valore per sé e per gli altri equivale a pensare e a fare cose belle – che ovviamente non vuol dire solo cose artistiche, ma cose che facciano bene alla società, che abbiano un impatto positivo su tutti, che contribuiscano alla crescita personale e collettiva, al benessere. E anche alla riflessione. In quest’ottica persino il concetto di guadagno cambia. Al guadagno economico si affianca il guadagno in termini di conoscenza, in termini di relazioni interpersonali, in termini di approfondimento culturale.
Ho letto da qualche parte che cultura significa anche “cambiare con le parole”. Ecco che allora le parole hanno un peso, hanno uno scopo. Usarle bene – e forse usarne meno – è una responsabilità di tutti. Dei giornalisti e ancora di più di chi fa politica. All’impeto di parole che convogliano odio, notizie false, protagonismi inutili e dannosi, sarebbe meglio sostituire azioni per la creazione di valore e un silenzio carico di progetti belli da portare avanti. Senza fanfare. Perché tanto, alla fine, la bellezza emerge sempre. E il brutto, proprio perché è brutto si fa notare sì, ma prima o poi si autodistrugge.
Se chi ci legge pensa che siamo controcorrente, naïf e magari anche un po’ semplici, allora siamo contenti. È proprio questo che vogliamo fare: essere giornalisti che usano le parole non come armi ma come ponti, cercare di creare valore con azioni e percorsi semplici e reali fatti di incontri, e scambi di conoscenza reciproca e di crescita.
Il nostro impegno e i progetti che Voci Globali sta portando avanti, provano ad andare in questa direzione.