“Al Magistero erano quasi tutte donne, come alle magistrali, e quindi l’elemento femminile era preponderante, ma nei giorni delle occupazioni non ho mai combinato niente da questo punto di vista”. Rimpianto ineccepibile per Francesco Guccini che rimemora le occupazioni nel ’68 all’Università di Bologna, le manifestazione contro la guerra in Vietnam. D’anni più maturo, il cantautore si sofferma sul suo viaggio ad Amsterdam tra il ’66 e il ’67, dove i Provos rappresentavano il movimento controculturale dei Paesi Bassi.
Eva Cantarella, laureata in giurisprudenza, aveva vissuto a Berkeley un’anticipazione della rivolta studentesca: “Avevo avuto la fortuna di vivere un momento straordinario, un insieme di ribellione politica, culturale e sociale. Però pur simpatizzando con il movimento, dissentiva “sui voti politici, che non ho mai dato, e sugli esami di gruppo che non ho mai fatto”. L’anno dopo, nel ‘69 ci fu a Milano la strage di Piazza Fontana: “Pensavo che Valpreda fosse innocente, non riuscivo a credere che Pinelli fosse caduto dalla finestra” Sebbene partecipasse alla discussione sui problemi della condizione femminile, “l’autocoscienza era una pratica verso cui provavo una sia pur inconfessata resistenza”. Nella propria disciplina, il diritto, “le difficoltà incontrate nel tentativo di cambiare leggi ormai arcaiche” la inducono a “cercare nel nostro passato più lontano le ragioni di tale ostinata ostilità”. E conclude con la convinzione “di essere stata molto fortunata ad aver vissuto in quegli anni”.
Francesca Marciano era troppo giovane, aveva soltanto tredici anni, ebbe però esperienza di come “si mescolassero strade diverse: c’è chi ha preso una deriva un po’ mistica, chi si è rivolto alle droghe, chi è rimasto nella politica assumendo anche un atteggiamento giudicante nei confronti degli altri.” Lei era soprattutto “attratta dalla sfida di realizzare se stessi (passim). E in ogni caso era presa dall’aspetto più personale, diciamo «artistico» che nasceva dal Sessantotto: il cinema, il teatro, la danza. Insomma la libertà di espressione”.
Renzo Piano, già adulto, conviene che “i motivi per partecipare alle occupazioni erano tanti e differenti: l’architettura, le amicizie, le ragazze ovviamente. C’era l’attesa di una vita diversa.” Nel ’69 il celebre architetto già partecipava al concorso per il Beaubourg, quando in Francia il ministro della cultura era André Malraux. “I capelli erano lunghi e le gonne corte. C’erano i Beatles e Mary Quant a King’s Road; era un mondo che si muoveva”.
Alex Zanotelli, futuro direttore di Nigrizia tocca alcuni punti dolenti: “Il Sessantotto non coinvolse per nulla il mondo islamico”, si rammarica. E cita a contrasto la lettera di don Lorenzo Milani L’obbedienza non è più una virtù. Affermando senza reticenze che “molti nel primo nucleo delle Brigate Rosse venivano dall’Azione cattolica”.
La testimonianza di Edoardo Boncinelli è la più amena e scanzonata: “Aborrisco la politica eppure per qualche mese sono stato capopopolo di una occupazione”. Approdato come borsista a Napoli, all’Istituto internazionale di genetica e biofisica diretto da Buzzati Traverso, lo scienziato scopre che alcuni ricercatori si andavano ribellando a una serie di convenzioni, “proponendo per esempio che la vetrina venisse pulita dal professore anziché dal tecnico”. “L’occupazione era vissuta come una guerra tra ricercatori e tecnici aiutanti, come se i primi fossero capitalisti e questi ultimi schiavi o proletari. Nella confusione babelica delle concioni, finisce per essere eletto presidente d’assemblea. “Si trattava di coordinare le discussioni e siccome evidentemente lo facevo bene, fui presidente d’assemblea per tutto il tempo dell’occupazione, una quarantina di giorni. Finii quindi per incarnare l’anima stessa della rivolta”. Questa poi è magnifica: “ L’esperienza di quei quaranta giorni – anzi trentotto per l’esattezza – da capopopolo influenzò anche quei problemi personali che mi avevano indotto a lasciare Firenze per Napoli: guarii subito, perché non potevo dire «sto male, oggi sto a casa e non vengo.». Fu l’evento che mi fece recuperare la salute e, diciamo la verità, che fece anche crescere la mia autostima, perché conquistai il rispetto di tutti, amici e nemici. Fu terapeutico.” E conclude: “Aborrisco la politica. Secondo me il paradiso in terra non c’è. E quindi è inutile rompersi le scatole”.
Carlo Verdone è il più sentimentale. Alunno del Nazareno, il liceo classico dei Padri Scolopi per la gioventù dorata di Roma, viene coinvolto da Filippo La Porta, compagno di classe insieme a Christian De Sica, a manifestare contro la guerra del Vietnam: “E va be’, che dobbiamo fa’?” Il giorno dopo vengono tutti sospesi per insubordinazione. Verdone ritrae fedelmente e plasticamente la Roma di quegli anni; la tessera per il Filmstudio, i lunghi pomeriggi nella sala di Via degli Orti d’Alibert, i film che lo segnarono: I pugni in tasca, Prima della Rivoluzione, tutto Godard, Truffaut. Il salotto di casa Verdone (suo padre era docente universitario di cinema) era l’approdo dei cineasti del tempo, tutti simpatici, tranne Guido Aristarco “uomo di rara saccenza e antipatia”. E come dargli torto! Il giovane Carlo acquista una Super 8 da Isabella Rossellini che aveva bisogno di soldi per pagare una bolletta telefonica onerosa e inizia le prime sperimentazioni da cineamatore. Intanto comincia a esibirsi all’Alberichino e frequenta la facoltà di lettere di Walter Pedullà e Alberto Asor Rosa. Ricorda le assemblee “dove parlavano in cinquecento e non si riusciva a capire niente”. Torna come in altre occasioni sull’amicizia fraterna con il compagno fascista, Francesco, figlio di un gerarca, morto troppo presto. Il suo affetto più grande e importante, grazie all’istintiva accortezza di tenere fuori della porta la politica. Infine tratteggia il Sessantotto al Centro Sperimentale di Cinematografia, presidente Roberto Rossellini: “Non imparammo niente perché era un’occupazione perenne”. Mentre Rossellini si infervorava a illustrare i nuovi obiettivi per le cineprese, uno studente “si alzò e gli fece una gran scoreggia”. Il padre del Neorealismo, fumando una Chesterfield, non si scompose, dichiarò conclusa la lezione e non fece più ritorno. “Tutto finì in caciara dieci anni dopo, nel ’79 – sintetizza mirabilmente Verdone – al Festival dei Poeti di Castelporziano: “Misticismo e provocazione, tossicodipendenza e delinquenza comune si concentrarono su quella lurida spiaggia per una sorta di baccanale osceno. C’erano tanti poeti della Beat Generation, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Ferlinghetti, William Borroughs. Anche Evgenij Evtushenko era di sceso tra i mortali. Gli chiesero dei versi estemporanei; guardò quel mare di merda e declamò: «Ostia, onde di preservativi che scivolano sulla spiaggia».
L’attore e regista parla anche delle prime cotte. Esattamente come Paolo Flores d’Arcais, ispiratore e artefice di questo magnifico almanacco. Il filosofo e politologo compone uno scenario di colorita intensità, da vero scrittore, e ci depone con mano leggera nel cuore di quegli anni, mettendosi decisamente in gioco. Nato l’11 luglio del 1944, e avendo frequentato il liceo scientifico, deve sostenere un secondo esame di maturità classica per iscriversi a Filosofia. Si auto definisce Comunista eretico, raccontando il suo percorso ideologico e l’espulsione dalla FIGC. Ecco nelle sue parole il 1° marzo a Valle Giulia : “Ho scoperto che davvero l’adrenalina trasforma la percezione fisica”. Il sangue gli cola da una ferita alla testa di cui neppure si accorge ed è una compagna di facoltà che lo soccorre, premurosa: “Una ragazza molto bella che poi sarebbe diventata una firma nota di Repubblica”. Annotazione non marginale, perché in quell’istante erompe il privato e scopriamo l’inclinazione amatoria del giovane studioso. Qui dovrei trascrivere per intero la sua pagina, vorrei dire lirica, da cui comprendiamo molte cose: “Si occupava, si manifestava, si viveva tutti insieme… Anche le ragazze si sentivano parte della tua stessa «festa» e attaccare discorso, fare amicizia, «provarci», veniva tutto da sé… Ragazze gioiose, molto spesso belle, non di rado bellissime, pochi anni prima le avresti viste solo insieme a ricchi pariolini con macchina e soldi di papà, ora stavano con la rivolta, nel movimento (…) E nel frattempo i costumi morali, le regole sessuali, venivano sconvolte, incredibilmente liberate. La gioia della lotta e la sensuale leggerezza degli amori, incanti intrecciati, indistinguibili, hanno reso quei giorni indimenticabili e irripetibili. Di lì a due mesi avrei ritrovato queste stesse atmosfere e queste sensazioni, perfino potenziate, a Parigi.” Nella Ville Lumiére, all’interno della IV Internazionale, incontra Catherine, “ragazza dai capelli biondi, molto affascinante anche se non bellissima (in fatto di sessualità le devo molto)”. Cari lettori non mi spingo oltre, lascio a voi la scoperta del Maggio Rosso di Nanterre e di quel che significò; nelle barricate, le battaglie, le fughe, che emanano una reminiscenza di Victor Hugo. Anticipo soltanto la chiusura del suo brano: “Quel bisogno di impegno per più «giustizia e libertà» spero mi accompagnerà finché vivo”.
Sulle disquisizioni dei politici e degli analisti si annoierà chi ne avrà voglia. Vi interessano i nomi? Luciana Castellina, Karl Dietrich Wolff, Axel Honneth, Paolo Mieli, Gian Carlo Caselli, Todd Gittlin, Rudi Dutschke. Se ne distaccano Andrea Camilleri, battitore libero; Nicola Piovani: “è un mondo che mi sembra lontano secoli anziché decenni”; e Anne Wiazemsky che era la giovanissima preda di Jean-Luc Godard e ora prende gusto a lanciarsi in una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, quasi sequenze di una rapida sceneggiatura. Anche Letizia Battaglia, fotografa siciliana, si abbandona alla beata franchezza: “Il Sessantotto è stato cruciale nella mia storia personale, la mia vita senza il Sessantotto sarebbe stata molto diversa: mi sarei fatta un amante ricco e non avrei lavorato per il giornale L’Ora. E invece mi sono sempre scelta amanti poveri, tutti fotografi”.
Rimpianti & rimorsi. I due quaderni di MicroMega, in una chiave fenomenologica per nulla scontata, lasciando spazio a ogni voce senza alcun pregiudizio, agiscono come macchina del tempo, e ci fanno anche capire che gli unici testimoni veri sono i poeti. Nella sfida sottaciuta gli artisti vincono dieci a zero sui comizianti. Esemplare in tal senso il testo di chiusura del secondo fascicolo, Processo a Moravia, attuato nella sede dell’Espresso: Oreste Scalzone, Sergio Petruccioli, Massimiliano Fuksas, Valerio Veltroni, Duccio Staderini attaccano lo scrittore, e fanno la figura di botoli ringhianti al cospetto di Prometeo!
Dunque una riflessione si impone: il Sessantotto ha liberato l’Italia, scandalizzandola, trasgredendo, modernizzandola. Una fiammata salutare che col suo rogo ha bruciato i panni vecchi producendo però al contempo non poche gravi ustioni e piaghe politiche ancora da risanare. Ciò che tuttavia emerge con prepotenza è l’inevitabilità di ciò che accadde, il collettivo e ineluttabile soprassalto di coscienza.