Il monologo di Favino tratto da “La notte poco prima della foresta” di Bernard-Marie Koltès, la vittoria di una canzone che condanna il terrorismo a livello globale e costituisce un messaggio di speranza per un’Europa squassata dalla violenza stragista del jihadismo, una conduzione pacata, anti-rottamatoria ed elegante, rispettosa della storia del Festival e delle sue tradizioni; insomma, il trio Baglioni-Favino-Hunziker ha costruito un piccolo gioiello e guai se qualcuno dovesse azzardarsi a smantellarlo. A tal proposito, la cosa migliore che potrebbe fare in questi giorni la RAI sarebbe confermare la direzione artistica d Baglioni anche per il prossimo anno, puntando non sull’effetto minestra riscaldata ma su un ritorno al servizio pubblico e alle sue caratteristiche più valide che costituirebbe un balsamo per un’azienda ferita da troppi anni di errori e troppe scelte sbagliate.
Anche l’idea baglioniana di non eliminare nessuno dalla gara, di non piegarsi alla cultura della bocciatura e dello scarto, di stilare una rispettosa classifica finale e di promuovere i più bravi senza umiliare gli altri è stata un tocco di gentilezza nonché una spinta in direzione ostinata e contraria di cui si avvertiva fortemente il bisogno.
Niente ospiti strapagati, valorizzazione della nostra cultura e della nostra identità, apertura al mondo, inclusione, accoglienza, integrazione ed esaltazione delle eccellenze senza lasciarsi andare alla stucchevole retorica del merito, nessuna aberrazione né canzoni da due soldi che in altre edizioni hanno ricevuto uno spazio e un’attenzione di gran lunga superiori a quelli cui avrebbero avuto diritto (in alcuni casi è oggettivo).
E poi uno splendido sapore politico: non propagandistico ma squisitamente civile, nel senso più nobile del termine, con l’ingresso di tutti i grandi temi del nostro tempo che hanno mostrato il volto di un Paese riflessivo, colto, capace di interrogarsi su se stesso e di procedere unito nella propria diversità, senza alcun odio.
Una RAI che, per qualche sera, si riappropria dunque del proprio ruolo, che sa essere globale, multiculturale, profonda e innovativa, che si distacca dai cliché di questa maledetta fase storica e contrasta con il dovuto vigore la barbarie cui assistiamo ogni giorno.
Uno spettacolo che induce a riflettere, che riesce a essere nazionalpopolare senza essere scadente, che porta in tutte le case un messaggio alternativo, che sa farsi proposta senza trasformarsi in polemica strumentale, che ci offre un po’ di respiro e di aria pulita in quest’oceano di melma e che, infine, resiste anche alla tentazione di attingere dai talent show, preferendo, al contrario, puntare sulla straordinaria fucina culturale che è sempre stato il cantautorato italiano: questo è il bilancio di Sanremo 2018, premiato dalla critica e da ascolti superiori alle aspettative.
L’auspicio è che si prosegua su questa strada, l’amara sensazione è che non accadrà.
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