M. 17 anni, entra in un ospedale convenzionato nel quartiere di Centocelle per dare alla luce un bambino. Tutto bene fino a quando la donna sta per essere dimessa ma non le viene consegnato suo figlio perché non ha documenti. A nulla valgono le proteste della giovane né la rassicurazione che il padre del neonato (italiano) sta avviando le procedure per il riconoscimento né che la donna ha fatto richiesta del passaporto ma ancora non lo ha ottenuto. Non vale il tagliandino della questura che attesta la richiesta di passaporto né la conferma della madre della giovane donna (in possesso di documenti) che le cose stanno esattamente come vengono dette. E, soprattutto, non vale che il bimbo sia stato effettivamente partorito in quella struttura e quindi risulti del tutto evidente chi sia la madre. Ci vuole un documento.
La struttura ospedaliera chiede alla giovane di recarsi presso gli uffici anagrafici per farsi rilasciare “almeno” una foto autenticata. La partoriente obbedisce. Ma qui si arriva al surreale. Gli uffici sostengono che non si può autenticare una fotografia senza un documento e che,comunque, le fotografie autenticate si rilasciano solo in tre casi: per il rinnovo della patente o per ottenere un permesso di caccia o di pesca. J M. non ha la patente (ha 17 anni), non caccia e non pesca. E poi la donna non si è rivolta al “suo” Municipio, ma sembrano dimenticare che J. M. un Municipio non ce l’ha.
Come fare? Ore di discussione, file agli sportelli che si allungano. Intanto, l’Associazione Cittadinanza e Minoranze, investita del problema dalle dirette interessate, cerca di capire se e perché una clinica privata convenzionata possa trattenere un bimbo appena nato e sottrarlo alla madre.
Si interpellano magistrati, medici, assistenti sociali. Ci si fa aiutare da chi, su questo genere di faccende, sbatte la faccia tutti i giorni, come Lisa Canitano e la sua associazione Vita di Donne, da anni impegnata per la salvaguardia della salute delle donne. Si mobilitano le avvocate dell’associazione Giuriste di Genere, Chiedono spiegazioni alla clinica.
Conclusione (ancora appesa a un filo): J. M. riesce a ottenere la foto autenticata (forse deciderà di dedicarsi alla pesca) torna in clinica e quando la sentiamo, sta allattando il suo bambino. Domani il giovane padre perfezionerà il riconoscimento di suo figlio e finalmente potranno portarselo a casa. A casa? Quale casa? Da una ricerca realizzata dalla Associazione 21 Luglio in collaborazione con la Facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona, emergono dati allarmanti su un flusso sistematico e istituzionalizzato di minori dalle famiglie rom a quelle non rom in attesa di adozione causato dalle precarie condizioni abitative delle comunità rom e sinte. Spiegano i ricercatori dell’Università di Verona: L’indagine ha mostrato come dal 2006 al 2012 sia stato segnalato al Tribunale Minorile il 6% della popolazione rom minorenne, ovvero 1 minore rom su 17 mentre per i minori non rom la percentuale è di uno su mille. E, per quanto riguarda le procedure di adottabilità, ecco le cifre: sono state avviate per un minore rom su 20 e per un minore non rom su 1000. Le sentenze in via definitiva riguardano un minore rom su 33 e un minore non rom su 1250. Insomma, un bambino rom ha circa 50 possibilità in più che venga aperta per lui una procedura di adottabilità e quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile.
*Anna Pizzo – di Cittadinanza e Minoranze