La Cassazione ha confermato le condanne di due esecutori, un intermediario e un mandante. Ipotizzando un “quarto livello”, su cui non è stato indagato abbastanza
Renata Fonte, libera sognatrice interpretata da Cristiana Capotondi diretta da Renato De Maria, mi ha fatto rimanere per tutti gli 85 minuti della puntata con un nodo in gola. Conosco la storia di Renata Fonte per averla sentita raccontare diverse volte dalle figlie Sabrina e Viviana Matrangola, impegnate per promuovere la cultura della legalità soprattutto tra i più giovani. Conosco Renata dalle carte processuali che non ci hanno restituito la verità completa sul suo assassinio. Sono sconosciuti infatti quei mandanti di “quarto livello” citati dalla sentenza della Corte d’assise di Lecce (del 16 marzo 1987, presidente Domenico Angelelli, giudice istruttore Luigi De Liguori; confermata in appello il 5 febbraio 1988 in Cassazione l’8 novembre 1988) che diedero la spinta e crearono il contesto in cui maturò l’idea dell’assassinio.
E’ vero, i giudici del Tribunale leccese li definiscono “fantasmi”. Ma Renata Fonte fu uccisa perché si opponeva alla speculazione edilizia all’interno del neo costituito Parco di Porto Selvaggio, dunque è all’interno di quel progetto edilizio, tra quelle carte, che i “fantasmi” si sono nascosti ed è lì che vanno cercati per fare luce, dopo 34 anni dalla morte di Renata. La verità processuale è troppo semplicistica e si ferma troppo in superficie. Non dà risposta per esempio sulla provenienza di quegli 80 milioni di lire che servirono per pagare gli esecutori. Troppi soldi per uno che creava il suo consenso vagheggiando le pratiche delle pensioni Inps di poveri disgraziati.
Per decenni la memoria di Renata Fonte è stata una memoria fastidiosa e scomoda. La coscienza collettiva, la maggioranza di essa, ha cercato di rimuoverla. Sparute iniziative, un Centro antiviolenza a lei dedicato e un premio, sono stati per anni quasi un ronzio fastidioso che periodicamente si riattivava.
Ricordare Renata Fonte, soprattutto ricordare il motivo della sua morte, significava doversi interrogare se esiste la mafia nel Salento e quanto i salentini sono mafiosi nella loro omertà e connivenza. A quella domanda s’è cercato di rispondere sempre ricorrendo alle mille sfumature dei distinguo. Possibilmente s’è cercato di non dover mai fare quella domanda in relazione alla morte di Renata Fonte. Don Luigi Ciotti ha poi sollevato il tappeto e da lì la polvere è uscita infilandosi nelle narici e negli occhi di tutti. Fastidiosa, come Renata. Dopo molte lacrime versate dalla coscienza dei salentini quella polvere è stata via via espulsa dagli occhi. E alla fine tutti hanno potuto vedere quella donna che cercava solo di fare il suo dovere fino in fondo.
L’associazione Libera dal 2011 s’è impegnata per restituire a Renata Fonte e alla sua famiglia le giuste parole per ricordarla. Il suo nome è stato inserito tra le vittime innocenti di mafia, superando ogni tentativo revisionista e rispondendo con un “sì” secco a quella domanda. “Sì”, esiste la mafia nel Salento e “sì”, ha ucciso Renata Fonte. Ma che mafia era? Una mafia moderna, che funziona con meccanismi simili a quelli del 2018, ma 34 anni fa: un “quarto livello” fatto di massoneria e imprenditoria che vuole succhiare fino all’osso le risorse naturalistiche del Salento e fa i soldi con i soldi pubblici. Un “terzo livello”, la politica collusa, quella che aggiusta le carte e fa approvare (o bocciare) i progetti. Un “secondo livello”, quello degli intermediari, i faccendieri, cui il quarto e il terzo livello ricorrono convinti così di mettere distanze e dunque di non sporcarsi le mani di sangue per arrivare al primo livello, quello degli esecutori. La manovalanza disgraziata e morta di fame, violenta e con le pezze al culo. Una struttura fluida, dove i livelli sono scollegati, per cui risalire al livello più profondo, il quarto, è difficile. Una mafia imprenditoriale. Si delineava già allora il funzionamento di questa mafia moderna che si chiama “sacra corona unita” e che era appena nata quando fu ammazzata Renata Fonte.
Anche Renata è una donna moderna: combattuta tra il voler essere e il dover essere, tra i totem matriarcali granitici e la ribellione verso i ruoli precostituiti. Renata maestra, femminista, politica, mamma, moglie, figlia. Renata era tutto questo e voleva fare tutto. Ha dovuto combattere anche da morta per affermare il valore del suo impegno politico: le indagini infatti cercarono, senza riuscirci, di trovare del torbido nella sua vita privata e in un ipotetico amante l’esecutore materiale del suo assassinio. Come si fa a non immedesimarsi in Renata? Come si fa a non vederla come una eroina?
Eppure la santificazione di Renata Fonte è pericolosa, come tutte le santificazioni. Perché delega ad altri e al loro status di persone “speciali” il farsi carico di una responsabilità che invece è di tutti. E’ di tutti il mare che Renata ha voluto salvare dal cemento, è di tutti Porto Selvaggio, è di tutti la responsabilità di tutelare ogni bene comune. Perché la mafia è un “fatto umano” e solo le persone, semplici persone, non eroi, possono combatterla.