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Regeni, rientro ambasciatore non ha funzionato. Prentendiamo risposte non le elemosiniamo

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Non ha funzionato. Oggi, a sei mesi esatti dal ritorno dell’ambasciatore italiano Cantini in Egitto, possiamo dire che la scelta di riprendere i contatti con il Paese in cui è stato assassinato Giulio Regeni e dal quale ancora (a due anni dalla morte del giovane accademico) si attende giustizia,  allo scopo di “normalizzare i rapporti” tra l’Italia e l’Egitto e, dunque, di ottenere più rapidamente giustizia e verità per Giulio, non ha funzionato.
Non vi è stato alcun significativo passo in avanti, non si è fatta alcuna chiarezza su colpevoli e moventi, non c’è stata alcuna risposta seria o fondata.
Al contrario, immediatamente dopo l’insediamento dell’ambasciatore italiano al Cairo, le autorità egiziane provvedevano ad oscurare il sito dell’Ecrf, l’Ong cui appartengono i consulenti egiziani della famiglia Regeni, e nel contempo arrestavano l’avvocato Ibrahim Metwaly, che si trovava in aereoporto appunto in procinto di partire per Ginevra, allo scopo di relazionare all’Onu in merito alla politica delle sparizioni forzate in Egitto e, in particolare, anche sulla vicenda Regeni.
Difficile, a questo punto, non pensare – come si temeva sin dall’inizio, come aveva  ipotizzato la stessa famiglia Regeni – che questo rientro, così sorprendente, così prematuro, visto lo stato delle indagini, non sia stato interpretato dalle autorità egiziane come una resa, un piegarsi al muro di silenzio che circonda l’omicidio di Giulio, il segno di una vittoria terribile, quella dell’immobilità ostinata di chi sa e tace, di chi ha levato la mano per colpire e ha preso la parola per ordinare, la morte prima e il silenzio, poi.
Difficile capire come la Procura generale egiziana, a sei mesi dalle rinnovate promesse di indagini e di chiarezza, non abbia ancora preso una posizione precisa circa i nominativo di ben nove funzionari della sicurezza egiziana chiaramente indicati nelle pagine dell’informativa fornita dalla Procura italiana.
Difficile capire come sia possibile che l’avvocato Metwaly sia ancora trattenuto in carcere in condizioni degradanti e inumane.
Ancora più difficile, infine, comprendere come sia possibile che tutto questo non venga considerato un chiaro rifiuto a collaborare e, ancora una volta, un’intollerabile dilazione nella ricerca della verità sulla morte di Giulio.
Non ha funzionato, insomma, e non si riesce a capire come si possa pensare che possa funzionare in futuro, questo riavvicinamento.
Non ha funzionato e sono molte le cose che non riusciamo a capire in questa scelta di riavvicinamento che è solo italiana, visto che l’Egitto non sembra, nei fatti, voler collaborare in nessun modo. Una cosa, però, la capiamo tutti: a Giulio questo non sarebbe piaciuto.
Non i compromessi, non gli indugi, non le attese insensate. Perché chi dà tempo a uno Stato che tortura e uccide sta dando tempo alla violenza, all’arbitrio, alla barbarie. Perché non si scende a patti con chi non intende cercare all’interno della propria organizzazione gli assassini. Perché non è possibile trattare con chi non intende fare giustizia.
La presenza dell’ambasciatore italiano avrebbe potuto avere un senso diverso, il senso di una presenza vigile, di una istanza di verità fisicamente rappresentata, di una richiesta costante nel tempo, il segno tangibile di un’Italia che non dimentica.
Non è stato così, non ha funzionato e ora – oggi, a sei mesi esatti da questa decisione non voluta né condivisa, a due anni dall’omicidio di Giulio Regeni- viene da chiedersi come le cose potrebbero essere diverse.
Forse iniziando a pretendere – davvero – risposte.
E non a elemosinarle.


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