di Franco La Torre
Il partito, da buon padre di famiglia, pensava anche alle vacanze dei suoi militanti, quadri e dirigenti. Durante l’estate mio padre veniva invitato a far parte di delegazioni nazionali che visitavano i paesi europei del cosiddetto blocco sovietico.
Erano viaggi di due-tre settimane, che mescolavano il riposo agli incontri con le delegazioni degli altri partiti comunisti e con i dirigenti del Paese ospitante. In genere andava con mia madre.
Nel 1968 papà e mamma mi portarono con loro in Polonia. Conservo pochi ricordi nitidi di quel viaggio ma sufficienti a far riemergere le emozioni di quei giorni. Il programma comprendeva le visite di Varsavia e Cracovia e un soggiorno di un paio di settimane a Zakopane, località turistica sulle Alpi Tatra. Ricordo gli stabilimenti di Nova Huta Lenina e una discesa sul fiume Vistola dal sapore avventuroso.
Era prevista la visita del campo di sterminio nazista di Auschwitz, dove andammo in pullman una mattina. Attraversato il cancello d’ingresso, reso celebre dalla tragica scritta che lo sovrasta “Arbeit Macht Frei/Il lavoro rende liberi”, una delle immagini più note di uno dei periodi più oscuri della storia dell’uomo, risultato della sua follia omicida, sostammo in una grande sala del blocco principale.
Lungo le pareti c’erano alcune bacheche di vetro dove, ricordo, erano esposti alcuni oggetti che testimoniavano cosa quella follia fosse stata in grado non solo di immaginare ma di realizzare. I responsabili del campo/museo parlarono, brevemente, con mio padre e mia madre, e loro, raggiungendomi mentre stavo fissando una di quelle bacheche, mi dissero che sarebbe stato meglio per me se fossi restato all’ingresso ad aspettarli.
Anche se hai dodici anni – mi dissero con aria effettivamente dispiaciuta – ci è stato raccomandato di non farti fare la visita del campo, non sei ancora abbastanza grande per sopportarne l’emozione.
Non volendo lasciarmi solo troppo a lungo, la loro visita durò meno di quella degli altri e, quando li rividi, mi dissero che, in effetti, era stato meglio che fossi rimasto lì. Anche se nell’attesa non me ne ero fatto una ragione, capii, dal loro tono, che non cercavano di consolarmi. Infatti, mi raccontarono qualcosa di quello che avevano visto e del loro turbamento.
Io reagii incredulo e disgustato nell’ascoltare quei pochi frammenti, ammettendo che la scelta fatta era quella giusta. Tornati a Zakopane, dopo qualche giorno l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia e, improvvisamente, le delegazioni straniere ebbero grandi difficoltà a comunicare con l’esterno e non arrivarono più i giornali esteri, disponibili sino al giorno prima. Non ci si accontentava degli scarni comunicati ufficiali e delle poche notizie fornite dai funzionari comunisti polacchi che ci accompagnavano. Mio padre tentava, in continuazione, senza successo, di parlare con i dirigenti del suo partito a Roma. Voleva saperne di più e capire come dovesse comportarsi con le altre delegazioni e gli alti dirigenti che si trovavano a Zakopane. Questa condizione di isolamento lo metteva a disagio.
Ricordo che era molto nervoso e che trascorreva la maggior parte del suo tempo a discutere e consultarsi con gli altri capi delegazione. Non lo avevo mai sentito parlare in francese o tedesco, come accadde in quell’occasione. Aveva chiesto di rientrare in Italia ma incontrava difficoltà spiegabili, in quel momento, solo dalla volontà dei nostri ospiti di rinviare il più possibile il suo ritorno.
Immagino fossero in corso colloqui tra il PCUS e gli altri partiti comunisti e, fintanto che questi erano in corso e non era chiaro se fosse stata presa una posizione comune a sostegno dell’invasione, tutto restava immobile. Ovviamente, mio padre ignorava che il PCI, dopo aver seguito con interesse la Primavera di Praga e le scelte di Alexander Dubcek, segretario del partito cecoslovacco, avesse, immediatamente, assunto una posizione di condanna dell’invasione sovietica, e che questa scelta avesse contribuito all’isolamento cui lui e la sua famiglia erano stati costretti in quei giorni.
Finalmente, dopo un paio di giorni, mio padre riprese a comunicare liberamente con l’Italia e apprese della decisione del partito. Subito dopo i compagni polacchi gli dissero che saremmo potuti tornare a casa. Quel viaggio non lasciò in lui un bel ricordo.
(9 – continua)