Prigioniero nel carcere dell’Ucciardone

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Di Franco la Torre

All’alba dell’undici marzo 1950 Pio La Torre fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré agosto 1951.
Del periodo del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito, padre del figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per sé e per mio padre, di dover piegarsi a quei piccoli ricatti del coraggioso e generoso agente di custodia, che chiudeva un occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.
“Le lettere che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio”.
Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto, e sorridevano, come fanno i bambini quando custodiscono segreti condivisi.
Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione. Il PCI siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico dirigente comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande ammirazione.
Accadde che, a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del PCI, si fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto al partito e, conseguentemente, andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava analisi e decisioni e, in una certa misura, riabilitava i giovani.
Questa svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini – dirigente autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi – che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva scarcerazione “del compagno La Torre”.
Di quell’anno e mezzo trascorso in carcere mia madre e mio padre condividevano il ricordo della tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati all’Ucciardone.
“Venivamo condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi – ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione – sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte, un’altra porta di ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire era urlare a squarciagola. Papà rimase praticamente muto e io piansi così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero incinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico”.
E mio padre aggiungeva, con un sorriso agrodolce.
“Avevo seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo”.
Proprio così – a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice, per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria all’Assemblea Regionale Siciliana.
Non c’era polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere e della natura dell’uomo.
Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità. Lo fece, al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto.
“Fu una scena per me un po’ patetica – rammentava mio padre – ero confuso e, forse, questo è stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre”.
Dei suoi giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato, persino, di aver aggirato la censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare su l’Unità, ne era la prova:
“…In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi…”.
Questa lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per reati gravi, uno dei quali per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.
“Mi immergevo nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio”.
Abitudine che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era raffinato, e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e irruento nei contrasti.

( 5- continua)

Da mafie


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