Il lavoro che ha permesso all’Italia di raggiungere il resto d’Europa nella lotta alla povertà potrebbe essere a rischio. Nonostante tutti i partiti parlino di politiche di contrasto, le analisi di Baldini e Daveri su Welforum.it evidenziano impatti diversi. E per Pasquinelli, sul welfare alle prossime elezioni si rischia il “depotenziemento, una giravolta o lo stand-by”
ROMA – C’è chi propone di estendere le attuali misure contro la povertà assoluta, chi del reddito di cittadinanza ne ha fatto un cavallo di battaglia, chi promette un reddito di dignità, ma il rischio vero che corre l’Italia oggi è che il faticoso percorso avviato sulle politiche di welfare possa di colpo rallentare, arrestarsi o peggio ancora cambiare direzione. Nonostante tutti i programmi elettorali dei partiti e delle coalizioni più forti in questo momento abbiano dedicato un’attenzione particolare al tema della povertà, non tutte le proposte sembrano essere facilmente realizzabili. A fare un’analisi puntigliosa su alcune delle proposte dei diversi schieramenti sono Massimo Baldini e Francesco Daveri su Welforum.it, l’Osservatorio nazionale sulle politiche sociali che provano a mettere in pratica le promesse fatte nei programmi elettorali.
Non c’è da stupirsi che il tema sia nell’agenda di quasi tutti i partiti politici che si sfideranno il prossimo 4 marzo. Ormai sono anni che i numeri dell’Istat descrivono un fenomeno sempre più strutturale nel nostro paese e che non mostra segnali di cedimento. Se la crisi economica sembra passata, i suoi effetti si vedono ancora tra la popolazione più debole. Le persone in povertà assoluta in Italia, secondo l’ultima rilevazione Istat, sono 4,7 milioni (nel 2016) e dagli anni della crisi economica ad oggi il dato non ha fatto altro che peggiorare portando le percentuali dei residenti in povertà assoluta dal 4 per cento del 2007 al 7.9 per cento del 2016, con un allarme crescente di povertà tra i minorenni e i giovani. Numeri che hanno messo governo e Parlamento con le spalle al muro e che hanno costretto le istituzioni a sviluppare una risposta strutturale partita proprio nel 2018. Ovvero il Rei, il Reddito di inclusione. Uno strumento a cui si è arrivati dopo anni di sperimentazioni e anche grazie al pressing del mondo dell’associazionismo italiano, con il contributo dell’Alleanza contro la povertà. Ma che impatto potrebbero avere le urne sul futuro del Rei?
Il centro sinistra vuole l’implementazione del Rei. Secondo Baldini e Daveri, se il Partito democratico dovesse spuntarla alle elezioni, la misura dovrebbe poter proseguire per la propria strada e potrebbe finalmente incidere sui valori della povertà assoluta. “È ragionevole che, se il Pd sarà di nuovo al governo – spiegano i due ricercatori -, si proseguirà nella applicazione di questa misura, e la si rafforzerà soprattutto sul fronte degli interventi di accompagnamento delle famiglie beneficiarie, che coinvolgono in primo luogo i servizi sociali dei comuni, ma anche i centri per l’impiego e quelli di formazione, il terzo settore. Una macchina complessa che si è da poco messa in moto e che necessita di nuove risorse per poter girare a pieno. Ma almeno si è partiti”. Non c’è da aspettarsi “rivoluzioni”, quindi, ma un rafforzamento delle politiche avviate sì, “con un’attenzione particolare ai servizi necessari per realizzare i progetti di reinserimento a cui devono aderire i beneficiari del Rei – spiegano Baldini e Daveri -. Sembra che nel programma vi sia l’impegno per un incremento, nel corso della legislatura, di tre miliardi nella spesa per il Rei. Secondo le stime del governo, il Reddito di Inclusione dovrebbe raggiungere nel 2018 circa 700 mila famiglie, il 2.7 per cento del totale, per un trasferimento medio mensile di 240 euro”. La spesa complessiva stabilita nell’ultima legge di bilancio inoltre, parla di due miliardi per il 2018, destinati a crescere a 2.7 nel 2020. Per un ampliamento del Rei è anche Civica Popolare, in coalizione con il Pd. “Il Rei approvato dal governo è un cambiamento di portata storica, ma va ampliato fino a raggiungere gli altri due terzi di persone in povertà che non lo riceveranno – si legge nel programma di Civica Popolare -, come chiede l’Alleanza contro la povertà”. +Europa, invece, guarda ancora più lontano pensando ad “uno strumento di sostegno al reddito universale rivolto a tutti coloro che si trovano in povertà assoluta, che colmi la distanza tra le risorse economiche della famiglia e la soglia di povertà assoluta, che vari in base al numero e all’età dei componenti della famiglia e al comune di residenza”. Una misura da abbinare a interventi d’inclusione attiva per i beneficiari. Anche se non al fianco del Pd alle urne, Liberi e Uguali su questo tema si muove nella stessa direzione della coalizione di centro sinistra. Nel loro programma chiedono di “estendere il Rei in modo da renderlo realmente uno strumento universale di contrasto alla povertà assoluta”
Il centro destra vuole un reddito di dignità. La lotta alla povertà assoluta non manca neanche nel programma della coalizione di centro destra, ovvero Forza Italia, Lega Nord, Fratelli d’Italia e la cosiddetta quarta gamba Noi con l’Italia-Udc, il cui testo presentato al Viminale è identico. Nel programma si parla di “azzeramento della povertà assoluta con un grande Piano di sostegno ai cittadini italiani in condizione di estrema indigenza, allo scopo di ridare loro dignità economica”, ma nel testo non è specificato come intendano procedere. A dare qualche dettaglio in più sul Piano del centrodestra è stato Silvio Berlusconi che in alcune sue dichiarazioni ha parlato di “reddito di dignità”, una misura che consentirà a chi è in povertà assoluta non solo non di non pagare le tasse ma di aver diritto a ricevere dallo Stato “la somma necessaria per arrivare ai livelli di dignità garantita sulla base dei criteri Istat”. “La soglia di dignità a cui si riferisce Berlusconi è invece definita in termini di reddito – spiegano Baldini e Daveri -, una media di mille euro mensili per persona o per capo famiglia (la proposta non ha precisato questo punto), variabili a seconda della zona del paese e in base al numero di figli a carico”. Non si parla quindi di implementare il Rei, ma di un nuovo strumento che i due ricercatori di Welforum mettono alla prova sulla carta stimando un costo complessivo dell’operazione (per i dettagli rimandiamo al loro articolo sulla piattaforma welforum.it) ben più alto di quello che costerebbe l’implementazione del Rei. “Il costo del reddito di dignità per le casse dello stato sarebbe di 29 miliardi – affermano Baldini e Daveri -. Come detto, sarebbero destinati a circa l’8 per cento delle famiglie, per un trasferimento medio mensile di 1200 euro a famiglia”.
Il M5S vuole un reddito di cittadinanza. È forse il cavallo di battaglia più noto del Movimento 5 Stelle. Una proposta che negli ultimi cinque anni ha avuto modo di maturare e che il movimento ha portato anche in Parlamento con la 17ma legislatura, senza successo. Nel programma pentastellato consegnato al Viminale, il reddito di cittadinanza è il terzo punto, a sottolineare l’importanza che riveste anche in campagna elettorale. Tuttavia, sono pochi gli elementi forniti dal testo, che su questo tema indica però un investimento di oltre 2 miliardi di euro per la riforma dei Centri per l’impiego. Sebbene la proposta del Movimento 5 stelle possa sembrare simile a quella della coalizione di centrodestra, per Baldini e Daveri, non è così. “Di Maio ha accusato Berlusconi di plagio, ma tra reddito di dignità e di cittadinanza c’è una grossa differenza – spiegano i due ricercatori -: Berlusconi sceglie come obiettivo la povertà assoluta, mentre la proposta dei 5 stelle guarda alla povertà relativa, che riguarda chi ha spesa (metodo tradizionale Istat) o reddito disponibile (metodo comune Eurostat) inferiori ad una certa percentuale del valore medio o mediano nazionale della stessa variabile. Per questo, la proposta del M5S coinvolgerebbe un numero più elevato di famiglie”. A conti fatti (e anche in questo caso rimandiamo sul sito di Welforum.it), applicando alla lettera il testo della proposta di legge già presentata dal M5S, la spesa totale della misura si aggirerebbe sui 29 miliardi, spiegano Baldini e Daveri. “Una stima simile è stata ottenuta da una simulazione dell’Inps, che come noi ha preso alla lettera il disegno di legge – aggiungono -. Otterrebbero il reddito di cittadinanza molte più famiglie di quelle a cui si riferisce Berlusconi, circa il 19 per cento delle famiglie italiane (la quota di famiglie in povertà relativa è di solito maggiore di quella dei nuclei in povertà assoluta), per un trasferimento mensile medio di circa 500 euro”.
Numeri da prendere con le pinze. Le stime fatte da Baldini e Daveri sul reddito di dignità e su quello di cittadinanza, tuttavia, devono essere usate con cautela, spiegano gli stessi ricercatori. “Innanzitutto, è noto che molti potenziali beneficiari che avrebbero diritto ad un sussidio non ne fanno poi richiesta – scrivono -. Se stimiamo un tasso di take-up del 60-70 per cento, la spesa sarebbe di circa 20 miliardi. Ma vi sono anche rischi che vanno nella direzione opposta, cioè di aumentare la spesa. In particolare, sussidi così generosi possono provocare trappole della povertà: alcune famiglie potrebbero trovare conveniente non cercare lavoro, o smettere di farlo, per poter beneficiare del sussidio. Questo rischio riguarda soprattutto il lavoro femminile o i lavori più faticosi o a basso salario”.
Il rischio più grande, tuttavia, è quello che sottolinea, sempre sulle pagine di Welforum, Sergio Pasquinelli, responsabile di ricerca presso Ars e Irs, nonché vicedirettore di Welforum. Nei suoi “10 punti per un’agenda sociale“, Pasquinelli mette in guardia dalle insidie che potrebbero arrivare dagli esiti delle ormai imminenti elezioni. “Il primo rischio è quello del de-potenziamento di quanto adottato – spiega Pasquinelli -. Un governo che nicchia su alcuni processi avviati”. Il secondo pericolo, nell’ordine proposto da Pasquinelli, è quello del netto cambio di rotta, un rischio-giravolta, e questo potrebbe riguardare in primis proprio il Rei. “Esemplare è il contrasto della povertà, su cui esistono proposte molto diverse dal Rei – aggiunge Pasquinelli -: il Reddito di cittadinanza del M5S e il Reddito di dignità di Forza Italia. Si tratta di due proposte di reddito minimo che costerebbero ciascuna circa 30 miliardi di euro l’anno e che si rivolgono a platee differenti”. Misure assistenziali che, per Pasquinelli, “contrastano con la logica promozionale e attivante dell’attuale Reddito di inclusione”. È lo stand-by, però, il rischio da considerare più probabile, conclude Pasquinelli. Una situazione che potrebbe verificarsi nel caso in cui l’esito delle elezioni portasse ad una situazione di ingovernabilità. “Uno stallo politico rischia di rinviare sine die i molti atti e decreti attuativi che le misure approvate richiedono, necessari per rendere effettive le decisioni prese”. (ga)