Per non aver  paura della diversitàù

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Il dibattito innescato da un articolo di Carlo Stasolla sulla questione Rom fornisce molti spunti di riflessione importanti. Stante la presenza in Italia di non meno di 4.500.000 persone di varie  età, provenienti da altri paesi, portatrici di culture, tradizioni, stili di vita e comportamenti diversi tra loro e dai nostri,la scelta dell’approccio giusto per attivare processi di inclusione sociale  è tema che travalica il caso dei Rom Sinti e Caminanti e suscita   interrogativi molto  impegnativi   Perché un dato è certo:   a prescindere in questa sede da ogni giudizio sulle  modalità e  sulle  conseguenze dei tentativi di controllare o quanto meno ostacolare i flussi migratori verso il nostro paese,il numero degli “stranieri”stabilmen-te residenti in Italia è destinato, di molto o di poco, ad aumentare.

L’ondata di xenofobia e razzismo che insieme a consistenti rigurgiti di fascismo sta inquinando  il senso comune del paese segna l’urgenza di   affrontare questo problema ormai cruciale, sia fronteggiando e “curando” la paura della diversità,  che si dice sia alla base di questa perniciosa  deriva, sia  decidendo sul  tipo di società verso il quale vogliamo avviarci:  puntare e come  sulla prospettiva  di un’evoluzione  della società in senso multietnico e multiculturale oppure  rifiutarla.

Non sembri sviante  il collegamento tra avvenimenti di tale portata e la questione Rom Sinti e Caminanti. Non è un parlar d’altro.  Infatti, se da un lato è possibile sperimentare su di un problema di piccole dimensioni   la validità di un approccio da applicare poi su un fenomeno   di maggiore portata, dall’altra    la scelta dell’approccio metodologico è più  agevole se lo   si riferisce a fenomeni di grandi dimensioni  essendone meno difficoltoso  coglierne gli effetti che su  fenomeni di piccola scala. Gli approcci possibili,  schematizzando al massimo e  pur sapendo che non si tratta di una alternativa drastica poiché nella  realtà  prevalgono le mezze tinte piuttosto che il bianco ed il nero, sono essenzialmente due: quello universalistico e quello  pluralistico.

Il primo è  largamente adottato ed è possibile valutarne   gli esiti. Il secondo assai meno. Per porre in luce le differenze  tra di essi penso sia necessario considerare  due categorie concettuali, a mio avviso essenziali per analizzare i problemi che abbiamo di fronte.   Si tratta di due concetti che, per il maldestro uso che se ne è fatto da alcuni e quello strumentale fattone da altri, ispirano un’ assoluta e preconcetta sfiducia: identità ed etnia.  I contenuti   originari di questi due termini  sono stati tanto  deformati e deturpati  che  il loro uso viene ormai  evitato o perché se ne è perso il significato corretto o per il timore  di equivoci.  Il primo termine, identità,  lo si associa, quasi lo si scambia, con l’identitarismo che  dell’identità propone  una versione distorta, assolutizzata, scarna   ed immutabile: una sorta di fortilizio chiuso in se stesso,  da difendere  e da opporre agli altri; è esattamente l’opposto di ciò che  l’ identità è. Formandosi  e  sviluppandosi mediante esperienze e relazioni le più diverse,l’identità è per sua natura   aperta al contatto  con l’esterno  e  alla contaminazione, tanto che si dice che essa sia  sempre meticcia; ed è anche inevitabilmente poliedrica e mutevole,  poiché  più sono le esperienze e le relazioni in cui si imbatte  più si arricchisce e muta,   mantenendo  inalterati  alcuni tratti specifici   in  virtù dei quali riesce ad  essere sempre se stessa pur modificandosi    profondamente. Custodire l’i-dentità non vuol dire perciò  preservarla da contaminazioni,  perché  se ne  arresterebbe  l’evolu-zione sclerotizzandola. Sarebbe un esito deleterio, in quanto  di un’ identità vitale  non si può fare a meno: se per un qualsiasi evento si attenua  la consapevolezza di sé, si smarrisce  il senso  della pro-pria storia, risulta compromessa la capacità stessa di affrontare la vita. Ciò vale per le singole persone come  per  collettività, qualunque ne sia la consistenza, comunque si configurino e con qualunque nome  le si voglia chiamare.

Altrettanto importante è avere un’idea chiara di cosa si intende per etnia.  Il Tommaseo non ne dà una definizione diretta  ma si può ricavarla da quella che riporta  per  Etnologia che definisce così: <Scienza delle stirpi, delle migrazioni dei popoli, che quindi comprende le loro origini, la loro storia, il diritto delle genti, etc.>.  La Treccani, a sua volta,  ne dà questo significato: <In etnologia e antropologia, raggruppamento umano basato su caratteri culturali e linguistici. Spesso usato, nel linguaggio giornalistico, con il sign. di minoranza nazionale, gruppo etnico minoritario>. In tempi recenti  alcuni antropologici   hanno   messo  in evidenza che alla base della costituzione delle diverse etnie vi sono anche dei fattori politici.

In definitiva, sin dalla seconda metà dell’800 per etnia si intende  un   gruppo di esseri umani   che hanno  tratti comuni  esclusivamente di carattere culturale. Il concetto di identità è totalmente diverso quindi da quello di razza che  si basa  invece sulla comunanza  solo di caratteri  biologici. In fun-zione di questi, taluni (purtroppo non pochi) pretenderebbero di distinguere razze diverse all’interno della umanità,   nonostante siano clamorosamente  contraddetti   dalle evidenze della  Scienza moderna   che  ha svelato  che  tutti i raggruppamenti umani hanno un DNA coincidente per oltre il 99,9%. Se  quindi è assolutamente giusto e, dal mio punto di vista doveroso e necessario,  opporsi decisamente  a chi vuol sostenere che  vi siano diverse razze umane, è sbagliato non considerare   che esistono  diversità  di   carattere culturale, cioè   sistemi di valori, tradizioni, lingue e stili di vita, dovute alle differenti storie, in base ai quali possono  identificarsi diverse etnie.

Perché  allora le resistenze e i sospetti  di cui è fatto segno questo termine? Perché lo si associa  alla  peggiore variante dell’ idea di clan,  cioè di un raggruppamento molto chiuso,  sempre in difesa quando non   in competizione più o meno permanente con il mondo esterno, tenuto insieme da forti  legami familiari, in cui esistono posizioni di  potere dominanti  e gli in-teressi comuni soffocano quelli dei singoli. Per di più  etnia richiama per assonanza  il termine etnicismo, cioè   l’idea che si  possa stabilire un ordine gerarchico  tra le etnie  e quindi  che posa esserci   supremazia di una   su di un’altra  e che la nazione debba avere un fondamento etnico;  ponendo l’etnicità a base delle organizzazioni politiche,  apre la via al  nazionalismo  e a conflitti. Ovviamente l’etnicismo è un’aberrazione da respingere, ma non è un buon motivo per ripudiare il concetto di etnia.

Se per   timore di fraintendimenti e del rischio di slittamenti  semantici si rinunciasse all’utilizzo dei termini identità e etnia ci si priverebbe di due  categorie concettuali  essenziali per l’analisi delle so-cietà, per comprenderne le dinamiche ed approcciare con discernimento sia il problema del-l’inclusione sociale di singole  minoranze sia quello ancora più  impegnativo del multiculturalismo. Nel primo caso, abdicando  all’uso di quei concetti non distingueremmo  il patrimonio culturale e linguistico e la stessa identità delle minoranze per cui   rinunceremmo  a salvaguardarli e l’in-clusione  avrebbe un unico inevitabile sbocco nell’ assimilazione, cioè nella omologazione della mi-noranza all’interno della società  maggioritaria con la  scomparsa di ogni diversità. Sarebbe una per-dita irreparabile per tutti e tutte. L’effetto di questa rinuncia sarebbe addirittura paralizzante di fronte alla prospettiva del  pluralismo culturale cioè  di una convivenza pacifica e proficua di differenti culture (nel significato indicato più sopra) in uno stesso paese.

Non voglio dilungarmi, perché  la  digressione  sarebbe eccessiva, su quanto la scomparsa delle diversità corrisponderebbe alle logiche della “globalizzazione” ed alle esigenze del grande capitale che nell’ attuare le proprie strategie di dominio  trae gran vantaggio  dall’ uniformità dei pensieri e dei comportamenti. Valga  quanto  al riguardo Ignacio Ramonet  ha scritto sul “pensiero unico”. Ciò posto prendiamo in considerazione i due possibili approcci ai quali schematizzando – lo ripeto –  è riconducibile il confronto: l’approccio universalistico e l’approccio pluralistico o multiculturale.

Il primo   presuppone che vi siano   dei “valori universali”, in particolare  i “diritti”, che vanno estesi universalmente a tutte le popolazioni e nazioni e minoranze. Ora, se è innegabile che i diritti hanno costituito una grande conquista per i  popoli che  li hanno conseguiti, non si può  ignorare che vi sono lingue nelle quali il termine diritto nemmeno  esiste e che vi   sono culture nelle quali l’dea di diritto è riferito non ai singoli individui, come da noi, ma a collettività. Ritenere  che la nostra idea di diritti  legati all’individuo sia superiore ad altre accezioni di questo termine  e che le culture che ignorano tale concetto siano decisamente inferiori alla nostra vuol dire  cadere  proprio in  quel-l’etnicismo di cui ci si preoccupa e  che si vorrebbe combattere. Assumere che i  valori  frutto dell’ Illuminismo e della Rivoluzione Francese abbiano tale valenza da potere andare bene a tutti e tutte e soppiantare quelli di altre culture è una forma di fondamentalismo. Lo chiamerei “fondamentalismo occidentale”. E’ una delle ricadute dell’ “eurocentrismo”da cui direttamente deriva  anche il  colonialismo con il quale sono state sterminate le popolazioni autoctone in America e in  Australia, devastati i paesi  africani, si è entrati in conflitto con le culture  asiatiche.

La logica falsamente messianica  sottesa al colonialismo che – lo si ricordi –  è parente stretto dell’universalismo    è chiaramente espressa in una canzoncina dell’epoca fascista, nella quale si prometteva alla “faccetta nera, bella abissina”  che le avremmo dato “il nostro duce e il nostro re” ed è ben spiegata nel  romanzo del 1955 di Robert C. Ruark “Something of Value”,  da cui si trasse un film che in italiano si intitolò “Qualcosa che vale”. Vi si denunciavano le conseguenze del colonialismo, descrivendo la nascita in Kenia del movimento dei Mau Mau quale reazione  appunto alla cancellazione  delle tradizioni locali ad opera dei  coloni bianchi   che in cambio non avevano pero portato qualcosa che valesse.  E’ la medesima logica  sottesa  all’assurda pretesa statunitense, cui si sono accodati supinamente  non pochi Stati occidentali,  di “esportare la democrazia” con la guerra. Le immani catastrofi   causate  perdurano ancora dopo qualche  decennio. Non meno deleteria è la pretesa di tutto l’Occidente di penetrare i mercati orientali con i propri prodotti,   ignorando che merci, consumi, bisogni e valori sono legati come anelli di una catena, per cui   l’introduzione di merci che esulano dalle tradizioni di un luogo prima o poi porta  alla modifica della struttura di valori della popolazione. Un conto è se ciò avviene   per  l’evoluzione dei  costumi, altro   se avviene  per l’invasione di  prodotti attraverso strategie di marketing; in questo caso  si possono suscitare reazioni  parimenti violente e di segno contrario. Bruno Amoroso sosteneva che fra le cause della nascita   del fondamentalismo islamico vi fosse anche quello che lui chiamava il fondamentalismo del mercato, cioè  l’arrogante convincimento della superiorità degli stili di vita, dei modelli di consumo e dei modi di produzione dell’Occidente    e che con la loro diffusione si espanda  (si esporti?) la civiltà. Senza nascondere che sbandierare tale convincimento,   serve a coprire un coacervo di imponenti interessi.

E’ evidente che ho inteso portare il ragionamento alle sue estreme conseguenze,  ma credo sia innegabile la sua consequenzialità e che se dai frutti si riconoscono gli alberi, questi risultati mettono seriamente in discussione le premesse da cui muove l’approccio universalistico.

Dell’ approccio pluralistico  si occupa Emanuela Ceva, cultrice di filosofia politica, in un saggio pubblicato nel  volume collettaneo  “Pluralismo e Libertà fondamentali” (Giuffré, Milano 2004),nel quale l’autrice si chiede come  <affrontare le sfide di convivenza pacifica sollevate dal riconoscimento di una pluralità di valori e di concezioni del bene all’interno delle comunità politiche  attuali>. A questa domanda elabora  qualche cenno di risposta    nell’ottica di una possibile “teoria della giustizia” che definisca “ciò che è giusto” in un contesto di pluralismo di valori, tramite “principi di giustizia”.  Tratteggia  due modelli di pluralismo:  “normativo” e   “descrittivo”. Il primo muove  dalla considerazione della  “natura plurale di ciò che vale” e ne fa discendere l’impossibilità  di dare ai valori un ordine gerarchico per cui ritiene  che sia  <legittima e valida ogni posizione  per differenti individui all’interno  di diversi contesti, e deve perciò essere conservata>;  il secondo riconosce la possibilità di un <disaccordo ragionevole   tra diversi soggetti su ciò che vale …i diversi giudizi non sono errori da correggere o di cui sbarazzarsi , … ma sono in qualche modo essenziali conseguenze delle normali attività intellettuali di agenti ragionevoli>.

Senza dilungarmi sul pure essenziale concetto di ragionevolezza, concludo sottolineando che in ambedue modelli  è escluso il prevalere di un sistema valoriale su di un altro. Ciò a mio avviso non vuol dire che nell’affrontare nel nostro paese  il problema dell’inclusione sociale   si debba rinunziare a proporre i “nostri”valori tra cui anche i diritti. Ma si tratta appunto di proporli e non di imporli e,   rifacendomi al concetto di identità,  non  posso  che ribadire    che  la proposta   può avvenire solo  per “contaminazione”. Sono perciò   d’accordo a metà  con Luca Bravi  quando sostiene nel saggio Universalismo ed Etnicizzazione   che    < l’universalismo dei diritti (e dei doveri) rappresenta una fondamentale meta verso cui tendere, ma applicato senza compromessi nel presente può causare il permanere di problemi d’inclusione, di fatto acuendoli e lasciandoci senza un mete intermedie su cui incontrarci per predisporre una soluzione spendibile>. Sarei completamente d’accordo se  ad  Universalismo si  sostituisse  “diffusione” dei valori e   al termine compromesso   “mediazione”; mediazione  tra <disaccordi  ragionevoli>. E’ evidente che non si tratti di semplici sfumature linguistiche  ma che alla mediazione  si debba arrivare  per mezzo di <normali attività intellettuali di agenti ragionevoli>. La ragionevolezza dunque  come connotazione  basilare dei processi di inclusione sociale.

E veniamo al caso dei Rom Sinti e Caminanti. La loro inclusione, dicevo all’inizio,     potrebbe  essere  il banco di prova della volontà  e della capacità nostre  di affrontare  il   problema dell’inclusione sociale della molteplicità di minoranze già presenti nel paese. Ciò  non vuol dire ridurre  la questione RSC ad un caso come tanti, negandone la specificità;ma al contrario vuol dire   imparare dal caso dei RSC  che      ogni caso    ha la propria  specificità  e l’inclusione di ogni minoranza non può partire     che dal riconoscimento   della sua specificità, da rispettare e tutelare, da contaminare con i nostri valori e da cui farsi contaminare.

Ma quali sono le specificità dei rom Sinti e Caminanti? Qui è necessario affrontare un tema   che è stato già sollevato anche nell’ambito del dibattito citato all’inizio.  E’ evidente che la <questione Rom> è anche una questione sociale   e che   alcuni comportamenti e stili di vita sono causati dalla povertà, degradata in non pochi casi in miseria, esattamente come  avviene  per i sottoproletariati, le plebi   o  il “popolo minuto”, secondo le denominazioni con le quali  a seconda dei contesti vengono  individuate le fasce sociali emarginate. Ma non è solo questo! Ridurla a questa   unica dimensione significa    ignorare che in ballo  ci sono una lingua, una cultura, una storia, in sintesi una identità che in un processo di inclusione va salvaguardata perché possa confrontarsi, interagire e contaminarsi con quella della società maggioritaria e  a sua volta contaminarla.

Hanno  perciò assolutamente ragione, a mio avviso,  Dijana Pavlovic, Santino Spinelli,   Graziano Halilovic,   Giorgio Bezzecchi,  Carlo Berini,  Paolo Cagna Ninchi,  Manuel Innocenti, e Radames Gabrielli,i quali nell’articolo intitolato“DE-ETNICIZZARE PER CANCELLARE L’IDENTITA’?”  affermano di essere <preoccupati della direzione che sta assumendo il dibattito pubblico sulla “questione rom”> tendendo a  ridurla   come  determinata unicamente dalla condizione di povertà, assorbendola quindi nella    <più generale condizione di marginalità sociale delle diverse fasce di popolazione> per cui   <tra un homeless, un immigrato, un italiano in miseria e un rom o un sinto non c’è differenza. ….   Quindi la “questione rom” diventa solo una questione sociale, non è più – e non va più affrontata – come la questione di una minoranza storico-linguistica messa ai margini sociali dal suo mancato riconoscimento>.

A mio avviso,  se si vuole correttamente attivare un processo di inclusione bisogna riuscire a distinguere  nei comportamenti e   stili di vita presenti  nel “campi” ciò che   fa parte del   patrimonio culturale e sono tratti identitari da tutelare   e quanto deriva dalle condizioni materiali in cui, rinchius@ e ghettizzat@  da decenni,   sono costrett@ a vivere.     Sia ben chiaro a questo proposito che semmai a qualcuno  fosse venuto in mente un tempo  che i “campi nomadi”  (successivamente rinominati  ipocritamente  e con scarso senso del ridicolo  “villaggi della solidarietà”) potessero essere stazioni di sosta per carovane in transito, essi sono stati in realtà concepiti, organizzati  e gestiti unicamente come luoghi di segregazione ed isolamento, per difenderci dalla “loro” diversità, per paura della loro diversità senza neppure conoscerla.

La distinzione tra i tratti identitari dell’etnia e   ciò che è conseguenza  delle condizioni materiali in cui vivono  può operarsi, oltre che richiamandosi a  studi sociologici ed antropologici esistenti,  mettendosi  in ascolto,  famiglia per famiglia,  delle loro storie,  delle loro esigenze ed   aspettative senza prevenzioni  e riconoscendo le singole famiglie  come soggetti di diritti,  protagoniste   della loro inclusione.  Il processo di contaminazione dei valori si attiva dunque in questo caso attribuendo loro  i   diritti di  cittadinanza  di cui sono privi   e costruendo con loro   un  modello di inclusione che, lungi dall’essere quello dell’assimilazione, nasca dall’interazione tra i loro ed i nostri valori.

Occorre dunque un approccio  “ragionevole”, cioè flessibile  e rispettoso delle differenze, che non parta da assiomi preconcetti, ma muova senza paura delle diversità alla ricerca delle soluzione più rispondenti ad ogni  caso con il quale ci si misura,  ricordando  che in tutto il mondo è  la diversità  che è  norma, sapendo che l’eguaglianza non è uniformità  e che  non si è liberi  se non si può essere diversi.  So bene che il cammino verso una società multiculturale non è semplice;  so bene che  tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare. Ma per non eludere  l’orizzonte  che ci sta  di fronte ed  evitare l’imbarbarimento delle società non ci resta che imparare a nuotare.

Nino Lisi. di Cittadinanza e Minoranze


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