La ley 535, che regola la gestione delle miniere boliviane, sancisce: “Le riserve minerarie sono di esclusiva proprietà e dominio diretto del popolo. Nessun individuo, naturale o collettivo, pur essendo proprietario del suolo, potrà invocare la proprietà delle riserve nel sottosuolo.” L’amministrazione Morales/Linera, ha però creato un sistema misto, che contempla imprese statali, private e cooperative. Piantando paletti chiari, in conformità con la Costituzione, che tutelino i diritti delle maestranze. Un boccone di traverso per molti privati e cooperativistas che dirigono 1.700 aziende, le quali contendono allo Stato lo sfruttamento minerario del sottosuolo. Impiego di lavoro infantile, violazione delle norme di sicurezza e dell’integrità ambientale, sforamento dell’orario lavorativo, sono infrazioni soggette a severe sanzioni sulla carta, che tuttavia persistono in barba alla suddetta legge. Granito, travertino, sale, fosfati, oro argento e pietre preziose, quali diamanti e smeraldi, rientrano nei parametri di controllo legislativi. Fanno eccezione idrocarburi e gas naturale. COMIBOL (Corporaciòn Minera Bolivia, statale) ha diritto di prelazione nella scelta dei territori. Le aree libere sono regolate da un contratto pattuito con lo Stato.
La voce del padroncino
I gravi fatti accaduti nell’agosto 2016, che son costati la vita al sindacalista Rubén Aparaya e un minatore uccisi dalla polizia, e subito dopo al vice-ministro degli Interni, Rodolfo Llanes (linciato dai dimostranti durante il tentativo di mediazione) rivelano la lotta a volte sanguinosa tra Stato e privato. L’attentato dinamitardo che ha insanguinato Oruro, città di minatori, uccidendo quattro persone e provocando 40 feriti alla vigilia di San Valentino, rientra in questo quadro di tensione estrema. Aldilà del conflitto tra governo e Central Obrera Boliviana, la federazione sindacale indipendente, le motivazioni sottotraccia rimangono le stesse: il sistema cooperativo (nato per garantire la sopravvivenza delle fasce più povere dei lavoratori) si sta lentamente, ma inesorabilmente, trasformando in una lobby di padroncini, che ai fini del profitto minacciano di calpestare i diritti degli stessi che dovrebbero tutelare. La prova del nove: le polemiche sul salario minimo che Morales ha ritoccato dodici volte dal 2006, portandolo dai 500 BOB (dollari boliviani) di allora ai 2000 attuali, che corrispondono a 285 USD mensili col cambio attuale.
Sebbene rimanga uno dei più bassi a livello regionale, le pressioni per limitarlo si estendono anche a norme su sicurezza e orari, che i gestori minerari vorrebbero più elastiche, nonostante incidenti come quello cileno del 2010 a San José, nei pressi di Copiapo’: 33 minatori intrappolati sottoterra per 70 giorni.
E la storia delle miniere boliviane, è costellata di lutti, fin dai tempi di Francisco de Toledo, gesuita e responsabile nel XVI secolo di decessi indios a migliaia, causa condizioni inumane di lavoro, avvelenamento da mercurio, silicosi e appunto crolli di miniere. Lutti che continuarono fino ai nostri giorni. Perfino adesso, l’aspettativa di vita dei minatori oscilla dai 40 ai 50 anni. A Potosi’ le miniere d’argento ancora attive fungono anche da museo, aperte a visitatori e turisti. Non solo miniere però. Molteplici i conflitti in corso: le proteste di medici e autotrasportatori che han bloccato a gennaio la superstrada tra Santa Cruz a Trinidad, sono durate 50 giorni, paralizzando il paese. Pietra dello scandalo, l’introduzione nel codice penale boliviano di un nuovo articolo applicabile a queste categorie, che riguarda responsabilità penale a livello di malpratica medica, e incidenti stradali. Protestas.webloc Con il paese fermo, Morales ha dovuto mediare, e la riforma è stata sospesa. La modifica ricalca l’articolo 146 introdotto da Correa in Ecuador nel 2014. L’ex presidente, che allora resistette alle proteste corporative, ha dovuto poi assistere alla resa del suo successore Lenin Moreno dietro pressione di aziende ecuadoriane e cinesi, che hanno tagliato l’adeguamento salariale da 25 a 11 dollari.
Tornando in Bolivia, la borghesia Aymara (l’etnia di cui fa parte Morales) usufruendo di agevolazioni e prestiti che le banche han concesso per ingraziarsi il presidente, si è emancipata dai disagi che affliggono altri gruppi indigeni, iniziando a trasferirsi dalle borgate di El Alto a San Miguel, il barrio più esclusivo a La Paz, costruendo cohetillos: palazzi slanciati, dai colori sgargianti, uno stile edilizio rinominato neo-andino, che si riscontra anche in Perù e Brasile. La contraddizione più evidente celata nelle pieghe del socialismo boliviano, riguarda proprio la risorsa-chiave del suo territorio: il litio.
Salar de Uyuni, è il terzo serbatoio planetario del prezioso metallo, una cassaforte naturale di cinque milioni di tonnellate in oro bianco.
Un deserto di 10.582 km quadrati, 11 strati di sale sovrapposti per un totale di dieci miliardi di tonnellate, da cui 25.000 estratte annualmente. Non avendo una tecnologia adeguata ai fini di estrazione e produzione del prodotto finito, la Bolivia è costretta a importarla da Asia ed Europa, data l’ostilità storica del Cile, che risale alle controversie per un accesso al mare sempre negato. La tecnica tedesca di estrarre il carbonato di litio tramite coni di evaporazione salina, che occupano meno spazio rispetto alle vasche, cerca di incrementare le 70 tonnellate ricavate l’anno passato.
Dalla fine di gennaio, Cina, Corea del Sud e Giappone hanno impiantato fabbriche che producono batterie, costruendo anche un prototipo di cellulare. Costoro oltre la tecnologia si sono portati dietro personale qualificato. Quali i benefici reali per le maestranze locali? Privi del know-how di cui sono depositari gli imprenditori esteri, gli operai reclutati sul posto devono sottostare a regole non scritte che infrangono la Costituzione. Secondo la stampa locale, i cinesi sfruttano gli indios come manovalanza 11 ore al giorno, violando il limite fissato a otto. E i pueblos indigeni continuano a emigrare.
(Una versione di questo pezzo è stata pubblicata da il Fatto online link il Fatto.webloc)
Conclusioni
Il ceto medio legato a commercio e attività minerarie, non digerisce tasse e vincoli. Le pulsioni ribelli si manifestano apertamente e sono riportate da quella parte di stampa che appoggia l’opposizione, nella quale gli imprenditori sono largamente rappresentati. E’ un film già visto da noi, dove Job Act è stato partorito proprio da quel settore politico schierato un tempo dalla parte dei lavoratori. Precariato, contratti di lavoro a termine, orari flessibili, e salari ridotti sono le conseguenze di un liberismo globale, che ormai minaccia anche il socialismo andino. Eppure la pressione fiscale quaggiù rimane bassa: 14% per i dipendenti, e tra il 15% e il 25% per gli imprenditori, secondo il volume d’affari. Niente di clamoroso, visti i nostri parametri. Però la tentazione di arricchimento a scapito della manodopera, rimane costante.
Si arriva al punto di accusare Morales di un eccessivo impiego di forza lavoro, che rallenterebbe lo sviluppo di tecnologia legata alla produzione. Una visione unilaterale, che non considera il coinvolgimento massiccio della popolazione come fattore primario della lotta alla povertà. La Cina è principale alleata di questa tendenza allo sfruttamento estremo. Bolivia ed Ecuador rappresentano comunque, a livello storico, un esperimento riuscito anche sotto il profilo economico di un socialismo “dal volto umano” che non ha proposto altre repliche lungo il continente, oltre l’eccezione uruguagia dell’allora presidente José Mujica. E, tranne che nei Paesi scandinavi, latita soprattutto nel mondo cosiddetto evoluto.
© Testi di Flavio Bacchetta – Foto di Stefano Polverari
Foto apertura: Miniera d’argento a Potosi’ (© Stefano Polverari)