Si torna in piazzale Clodio lunedì mattina per la scorta mediatica a Federica Angeli, che sarà ascoltata come teste al processo sulla ipotizzata presenza mafiosa sul litorale romano. E’ passato meno di un mese dal 23 gennaio, quando i giornalisti italiani erano sempre lì con una folta delegazione a rappresentare la stessa scorta per Daniele Piervincenzi ed Edoardo Anselmi. Ventotto giorni sono troppo pochi. E sono la prova di quanto bisogno ci sia di stare accanto ai giornalisti che raccontano il Paese più difficile e impervio e di quanto ciò avvenga spesso. Troppo spesso. Il senso del sit in annunciato da Articolo 21 con Fnsi, No bavaglio, Usigrai, Odg Lazio e Stampa Romana è quello di stare accanto alla collega che ha il difficile compito di raccontare anche nel processo ciò che ha già fatto su Repubblica, ma questa volta con effetti processuali che sono altra cosa da quelli giornalistici.
C’è, però, un significato aggiuntivo: stare in Tribunale (anche se solo simbolicamente davanti ai cancelli) vuol dire essere un po’ tutti noi testimoni di verità e fruitori di giustizia, ossia dare un senso civico al racconto giornalistico, pur rigoroso e necessario. Per una serie di ragioni i giornalisti italiani sono diventati, forse persino loro malgrado, testimoni di giustizia oltre che cronisti di storie di mafia e corruzione. Federica ne è l’esempio più importante: come spesso lei stesa ripete, ha sentito il <bisogno> di raccontare, di scrivere, di testimoniare, allora e ora, cosa succedeva a Ostia. Che è anche la sua città. Lunedì sarà la nostra città, uguale a molte altre ovviamente.
I cronisti dovrebbero “solo” raccontare i fatti. In fondo è questo ciò che ci viene chiesto. Eppure non è sufficiente. Non lo è per noi, non lo è per i lettori, non lo è in generale. Raccontare Ostia è stato complicato e pericoloso sia per Federica Angeli, costretta per questa ragione a vivere sotto scorta, sia per Daniele Piervincenzi che ha pagato con lesioni fisiche (e psicologiche) assai gravi. Di più: raccontare Ostia ha trasformato quei giornalisti in parti del processo e questa già è è un’anomalia. In un Paese normale i cronisti fanno solo il loro lavoro e possono essere liberi di farlo, non debbono tramutarsi pure in testimoni e parti lese. In Italia, a Roma è accaduto, purtroppo.
E accade altresì in altre regioni, in altre città ad alto tasso di presenza mafiosa. I giornalisti, ovviamente, non arretrano di un centimetro e aggiungono la mission civica alla deontologia professionale, nella speranza di contribuire a costruire un Paese migliore, una democrazia migliore. E’ evidente, però, che il primo obiettivo deve essere quello di rimettere ciascuno al suo posto, con i cronisti restituiti alla loro professione da poter esercitare senza minacce né aggressioni. Essere a Roma lunedì mattina, in Tribunale con Federica, significa anche questo, nella speranza che un’altra udienza con scorta mediatica non ci sia a breve o non ci sia mai più. Anche se è, oggettivamente, una speranza labile. Nel frattempo Federica Angeli non sarà sola. Fuori dall’aula, a pochi metri, altre decine di colleghi si trasformeranno per quel giorno in testimoni.
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