di Franco La Torre
Quando se l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si stesse mettendo in casa. Nel vero senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento mafioso, nel 1949.
Mio padre era colpevole non solo di essere comunista, ma anche, e soprattutto, di aver voluto aprire una sezione del PCI nella sua borgata e poi un’altra ancora ed un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali. Mio nonno fu avvertito dei sentimenti, che i mafiosi nutrivano nei confronti del figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi. Gli disse che avrebbe fatto meglio a concentrarsi sullo studio. Mio padre, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei rischi derivanti dalla sua presenza decise di trasferirsi a casa di compagni di partito.
Confermò, così, la scelta di dedicarsi completamente alla politica, sacrificando la cosa che aveva amato di più e senza la quale non sarebbe giunto sino a dove era arrivato.
Più che una casa, per la verità, era la stanza, affittata da Pancrazio De Pasquale ed un altro compagno, col quale mio padre condivideva il letto. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua risposta fu: a casa sua, dottore Zacco.
Il nonno Francesco Zacco, marchese e antifascista, repubblicano e comunista, aveva fatto la guerra come medico militare. Fu mio nonno che parlò a Paolo Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente.
Comunista fu la scintilla o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che aveva fatto esplodere l’amore per colui che, dopo pochi mesi, avrebbe sposato. Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio prete.
Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni.
Erano diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di contadini poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una profonda generosità d’animo.
(6 – continua)