Il lavoro di Annacarla Valeriano, Malacarne, donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli, 2017) documenta “in che modo la nostra società ha saputo impiegare l’esclusione per farne un contenitore in cui depositare […] la propria incapacità di affrontare l’altro e ciò che sembra minare equilibrio”. Ecco dunque le vicende del manicomio di Teramo (che valgono per ogni altro manicomio) e le storie delle donne internate durante il fascismo. Finisce in manicomio la Malacarne, composta “dalle donne che si discostano dall’ideale fascista, che con la loro inadeguatezza fisica rischiano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello stato”.
Il fascismo utilizza discorsi e dispositivi linguistici “per reinventare un’identità femminile come una cellula organicamente produttiva da fondere nell’ingranaggio statale”. Una visione che non termina con la caduta del regime. Eloquente l’epigrafe all’ingresso dell’Ospedale psichiatrico di Teramo – “Qui soltanto pochi, forse neppure veri” – rimossa solo pochi anni fa.
Con Letizia e Giovanna incontriamo il peso della moralità femminile “uno dei tesori fondativi dell’onore nazionale” e un universo maschile che ha preteso di caratterizzare le donne senza rivolgersi mai a loro. Come Cesira M. che “crescendo […] si ribellava ai genitori […] preferendo girare continuamente per farsi corteggiare dai giovanotti”. Queste le descrizioni che costellano le cartelle cliniche e che giustificano l’internamento in manicomio: “La donna deve tornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo; padre o marito; sudditanza quindi inferiorità”. È necessaria la stretta repressiva per colei che non è moglie e madre e non coltiva la famiglia né cura la casa.
Lo stato deve controllare e Valeriano, riprendendo Foucault, ci mostra come la sorveglianza, attraverso l’internamento, sia servita per secoli a nascondere tutto quello che una società patriarcale ha saputo infliggere alle bambine, alle figlie, alle mogli, alle madri, alle sorelle. Il manicomio di queste donne… Continua su isiciliani