Renzi ai padroni: ho fatto quello che mi avete chiesto, nelle mani di Calenda 162 tavoli di crisi, in gioco 180 mila posti. 37 mila aziende italiane investono all’estero
Di Alessandro Cardulli
Il lavoro grande assente in questa campagna elettorale senza capo né coda. Se ne parla, è vero, ma solo, lo fa in particolare Renzi Matteo, per promettere agli industriali, alla Confindustria, che è il primo problema cui il Pd pensa. Non è il primo e neppure il secondo. Tre dati sono la prova della politica sciagurata del suo governo e di quella di Gentiloni che l’ha proseguita. Siamo il paese della precarietà, un vero e proprio boom di contratti a termine, di “lavoretti” per poche ore settimanali, di lavoro nero specie nel settore agricolo. Al ministero per lo sviluppo economico, quello di Calenda, sono aperti 162 i tavoli di crisi aziendale, in gioco il lavoro per 180 mila persone. Ancora un dato in negativo riguarda il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende italiane, le delocalizzazioni, aumentato del 12,7% secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2009-2015, analizzati dalla Cgia di Mestre. La ricerca evidenzia che alla fine del decennio scorso i casi ammontavano a 31.672 mentre nel 2015 sono saliti fino a raggiungere quota 35.684 e la crescita è proseguita, verso 37 mila. E lui, il Renzi Matteo, già presidente del Consiglio? In questa ultima fase della campagna elettorale si rivolge agli industriali con il cappello in mano. Incontrando quelli dell’Assolombarda dice che siamo “ in una fase dinamica, il Paese ha una prospettiva di sviluppo”. E tendendo il cappello verso i padroni, come chi per necessità chiede l’elemosina dice: “Abbiamo fatto quello che avete chiesto per anni. Mi hanno attaccato dicendo che ho applicato l’agenda Confindustria”. Così aveva avuto modo di rivolgersi agli industriali toscani. Ora ha aggiunto: “Ma io dico che abbiamo realizzato anche una parte dell’agenda dei sindacati”. Ma quando mai? Visto anche che non li ha mai incontrati?
Dal Pd nessun accenno ad un progetto innovativo. Il ruolo di Liberi e Uguali
La realtà è che nella parole di Renzi Matteo non c’è alcun serio impegno del Pd, neppure un accenno, ad un progetto per dare vita ad un Piano del lavoro che affronti le difficoltà presenti guardando al futuro, a politiche industriali destinate a cambiare i modi di produzione, utilizzando sempre più le nuove tecnologie che cambiano la qualità stessa del lavoro e della vita dei lavoratori. Processi che hanno bisogno della guida pubblica, dell’intervento pubblico. Certo non i carrozzoni del passato, ma strutture che guidano ed indirizzano i processi produttivi. Un dato di fatto: non è un caso che le tematiche sulle quali è impegnata in particolare la ricerca della Cgil, nuovo modello di sviluppo, innovazione, il ruolo del sindacato, qualità della vita, tempi di vita e tempi di lavoro, a partire dagli orari di lavoro tornati in primo piano dopo la riduzione a 28 ore settimanali conquistata dai metalmeccanici tedeschi insieme ad aumenti del salario, non sono state neppure sfiorate in una campagna elettorale che dura ormai da quasi un anno. Ci ha provato Liberi e Uguali, ma la lista che partecipa alle elezioni non è un partito, una forza politica organizzata. Forse troppo tempo è stato perduto nella “fase pisapiana”, che doveva portare alla costruzione di un generico “campo progressista”, una sorta di gamba del Pd. Il lavoro, con tutte le sue implicazioni, economiche, sociali, culturali, per una forza di sinistra, di progresso, neosocialista deve essere al centro di ogni sua azione.
Occorre recuperare il tempo perduto nei lunghi anni della crisi con la consapevolezza che niente sarà come prima, c’è bisogno che la “cultura dell’innovazione”, le piattaforme telematiche, le “eccellenze”, diventino motivo di ricerca, di studio, trainanti nella trasformazione industriale. Il rapporto con le Università, la ricerca diventa centrale. Oggi gli studi sulle nuove forme di produzione, sul lavoro degli anni duemila, arrivano da altri paesi, da altre università, tedesche, francesi, americane, cinesi perfino. Da noi ci sono “professorini” che diventano editorialisti di giornali, tv e altri media nelle mani dei padroni che non sanno guardare più in là dei propri occhi. Proprio in questi giorni abbiamo letto su Repubblica alcuni articoli di economisti, meglio professorini, al cui cospetto quelli di Confindustria, leggi anche il Sole 24 Ore, diventano pericolosi rivoluzionari.
Negli ultimi sei anni 37% in più dei posti di lavoro a rischio. Risolti solo il 58% dei casi
Torniamo così ai tavoli della crisi, esemplari in negativo della politica industriale del nostro paese. I casi più noti e di lunga gestione sono sotto gli occhi di tutti, son quelli di Ilva, Alitalia ed Ericsson, i 497 licenziamenti della Embraco. Questi i dati del 2017, i più alti degli ultimi sei anni, con un aumento del 37 per cento dei posti di lavoro a rischio. “Negli anni si trascina: tra tavoli che si chiudono e nuovi casi, è uno scenario che si mantiene sostanzialmente invariato”, dice Salvatore Barone, responsabile Settori produttivi per la Cgil nazionale. Nel 2012 i tavoli aperti erano 119, mentre i posti di lavoro a rischio 118 mila. La media 2012-2017 è di 146 tavoli aperti per 143 mila dipendenti interessati. Nell’ultimo biennio i lavoratori coinvolti sono 25 mila in più, dal 2012 ben 62 mila in più: “Nel biennio 2016-2017 il ministero conta 62 vertenze concluse positivamente, 45 casi di successo di siti totalmente o parzialmente dismessi che vedono interventi di nuovi investitori, 21 casi senza soluzione. Il tasso medio di soluzione positiva sui sei anni è del 58 per cento”. Tra le principali dinamiche pesa “una crisi sistemica per gli elettrodomestici”, dal 2016 una “crescita rilevante delle crisi nella siderurgia”, dal 2015 un ingresso nei tavoli di crisi del settore dei call center mentre tendono “a scomparire” le crisi aziendali nel settore dell’automotive. In media le vertenze restano aperte 28-30 mesi (in alcuni casi anche oltre i 60 mesi, come per Alcoa, Lucchini, Termini Imerese, Om Carrelli, Gepin, Ideal Standard). E spesso anche quando si trova una soluzione non è poi efficace: la metà dei casi trattati, infatti, si ripropone al tavolo ministeriale dopo aver risolto le cause.
Boom delle aziende italiane che investono all’estero. La meta non sono i paesi dell’Est
Dai tavoli di crisi alle “delocalizzazioni” il passo è breve, il segno è lo stesso. Secondo la Cgia di Mestre, che ha esaminato gli ultimi dati disponibili il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende italiane è aumentato del 12,7%. Alla fine del decennio scorso i casi ammontavano a 31.672 mentre nel 2015 sono saliti fino a raggiungere quota 35.684. Seppur parziali – secondo la Cgia -, questi dati consentono di misurare la dimensione economica di un evento che rappresenta una forma di delocalizzazione. “Purtroppo – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – non ci sono statistiche complete in grado di fotografare con precisione il fenomeno della delocalizzazione produttiva. Infatti, non conosciamo, ad esempio, il numero di imprese che ha chiuso l’attività in Italia per trasferirsi all’estero. Tuttavia, siamo in grado di misurare con gradualità diverse gli investimenti delle aziende italiane nel capitale di imprese straniere ubicate all’estero”.
Imprese italiane all’estero. Diminuiscono gli occupati ma aumentano i fatturati
Dall’elaborazione effettuata dall’Ufficio studi della Cgia su Banca dati Reprint del Politecnico di Milano e dell’Ice, si evince che il numero di occupati all’estero alle dipendenze di imprese a partecipazione italiana è diminuito del 2,9% (una contrazione di poco più di 50.000 unità). Il fatturato, invece, è aumentato dell’8,3%, facendo registrare un incremento in termini assoluti del giro di affari di oltre 40 miliardi di euro. Sempre nel 2015, i ricavi delle imprese straniere controllate dalle italiane hanno toccato i 520,8 miliardi di euro. Dei 35.684 casi registrati nel 2015, oltre 14.400 (pari al 40,5% del totale) – secondo la Cgia – sono riconducibili ad aziende del settore del commercio, per lo più costituite da filiali e joint venture commerciali di imprese manifatturiere. L’altro settore più interessato alle partecipazioni all’estero è quello manifatturiero che ha coinvolto oltre 8.200 attività (pari al 23,1% del totale). In particolar modo quelle produttrici di macchinari, apparecchiature meccaniche, metallurgiche e prodotti in metallo. Il principale paese di destinazione di questi investimenti sono gli Stati Uniti. Di seguito la Francia (2.551 casi), la Romania (2.353), la Spagna (2.251), la Germania (2.228), il Regno Unito (1.991) e la Cina (1.698). Ora, leggi Embraco, si fa avanti la Slovacchia. “Chi pensava che la meta preferita dei nostri investimenti all’estero fosse l’Europa dell’Est – rileva il segretario della Cgia Renato Mason – rimarrà sorpreso. A eccezione della Romania, nelle primissime posizioni scorgiamo i paesi con i quali i rapporti commerciali sono da sempre fortissimi e con economie tra le più avanzate al mondo”. Le regioni italiane più interessate agli investimenti all’estero sono la Lombardia (11.637 partecipazioni), il Veneto (5.070), l’Emilia Romagna (4.989) e il Piemonte (3.244). Quasi il 78% del totale delle partecipazioni sono riconducibili a imprese italiane ubicate nelle regioni del Nord Italia.
Embraco. Al ministro diciamo: non basta fare la voce grossa contro la “gentaglia”
Chiudiamo richiamando il ministro Calenda che ha fatto la voce grossa con la Commissaria Ue in merito all’Embraco e alla Slovacchia. Ci viene da chiederci se ha mai messo le mani su questi problemi. Se lo avesse fatto magari avrebbe scoperto che le partecipazioni all’estero di aziende che hanno ottenuto contributi statali in Italia non sono un fatto accidentale, ma il risultato di una politica industriale che non conosce neppure alla lontana cosa significa interesse pubblico. Non basta ministro Calenda prendersela con la “gentaglia”. Al più serve per ottenere un titolo a effetto. Ma la politica industriale è altra cosa.