Strano film, questo Hannah (miglior attrice Charlotte Rampling a Venezia 2017) realizzato con rigore estremo da Andrea Pallaoro, cineasta trentino, ma operante a Los Angeles. E soprattutto interpretato con algida sapienza espressiva dalla nota attrice inglese, già interprete di un’altra opera di Pallaoro, Medeas. C’è anzi un raccordo più che complice tra il regista e l’interprete prima menzionati. In particolare, la figura di Hannah incarna una donna incastrata tra desolanti esperienze familiari – il marito finito in galera, il figlio anaffettivo e persino il nipotino del tutto insensibile – che vive i suoi giorni con abulica indifferenza, soltanto intenta, sembrerebbe, a cogliere emozioni, segni di una esistenzialità ghiacciata.
Tutto, in Hannah, accade senza alcun moto di causa ed effetto: non si sa, ad esempio, di quale delitto si sia macchiato il marito, perché il figlio ostenti inimicizia e ogni gesto, molte situazioni appaiano decisamente ostili. Con un tono austero, trattenuto, l’intiera vicenda si mostra qual è, una parabola prosciugata e quasi muta come chiusa immagine della fatica di vivere. Non c’è in questo scorcio di vissuto spento né possibile prospettiva, né ipotetico divenire, ma soltanto una battuta d’arresto totale. In tale contesto, Hannah-Charlotte campeggia ineffabile, refrattaria alla realtà circostante.
Constatato che l’approdo complessivo di Hannah si risolve in una rappresentazione tanto tetra, rifacendoci al profilo professionale caratteristico di Charlotte Rampling ci sembra utile ricordare qui una vecchia intervista che avemmo a fare a Venezia nel 1997 alla stessa attrice inglese, allora come oggi piuttosto restia ad abbandonarsi a scambi di vedute coi giornalisti.
Ecco dunque, in pochi brani della nostra conversazione (anche stentata) in quella lontana occasione: “Potrebbe essere etrusca. Quel sorriso appena increspato sulle labbra, lo sguardo brillante le danno un’espressione enigmatica… Distaccata, blasée, sembra guardare il mondo da una balaustra lontana e da quella posizione trarre giudizi spesso non benevoli sul prossimo e sull’universo mondo. Faccia a faccia, peraltro, Charlotte Rampling si rivela presto meno ‘etrusca’, meno inaccessibile. È soltanto filosoficamente disincantata, tutto qui. Le si chiede infatti di una cosa capitata come l’esperienza di lavorare con Visconti per La caduta degli dei e senza alcuna enfasi ricorda: ‘È stato un momento importante, decisivo’. Nient’altro.
Delusi, l’incalziamo: ‘Lei ha lavorato di frequente con cineasti italiani, appunto Visconti, Patroni Griffi (Addio fratello crudele), Liliana Cavani (Il portiere di notte). C’è una ragione particolare per simile scelta’. Sorride, prende tempo, poi liquida sbrigativamente la cosa: ‘Direi di no. Quei cineasti mi hanno interpellato e io ero disponibile. Certo, ho lavorato volentieri con tutti loro’. ‘Al di là dei film italiani, lei ha interpretato pellicole di successo quali Stardust Memories di Woody Allen, Il verdetto di Sidney Lumet, Vive la vie di Claude Lelouch, Max mon amour di Nagisha Oshima, Angel heart di Alan Parker: davvero un bel campionario del miglior cinema cosmopolita. Ricorda al proposito episodi, dettagli, aneddoti un po’ curiosi’. Ritorna ineffabile la più impenetrabile espressione etrusca. Quindi, la risposta lapidaria: ‘No, mai avuto alcun interesse per i dettagli, per il passato’. Cominciamo ad essere un po’ allarmati dinanzi a questa sfinge garbata, ma del tutto elusiva… senza molta speranza avanziamo: ‘Dal Portiere di notte al Verdetto, da Max mon amour a Angel heart, lei ha sempre interpretato ruoli arrischiatissimi… c’è un motivo per tale predilezione?’. Finalmente la sfinge si illumina: ‘Certo. Sfuggire le cose solite. Almeno sullo schermo posso optare per storie al di fuori delle noiose regole della realtà’. Touché”. Meglio non poteva rispondere.