di Franco La Torre
Politica significa impegno, responsabilità. La formazione e la selezione avvengono sul campo dell’azione, dove si misurano le capacità di promuovere e organizzare iniziative di massa e di dare a queste uno sbocco politico che permetta di raggiungere gli obiettivi dell’azione. Questa è la vera selezione nella formazione dei quadri di ogni organizzazione che si rispetti.
Fare politica è uno dei mestieri più belli del mondo, forse il più bello, perché si occupa della soluzione dei problemi delle persone.
Quante volte ho sentito ripetere questo concetto dalla bocca di mio padre. Fare politica, in un’organizzazione come il PCI, vuol dire dedicarsi ai problemi di chi non ha o di chi ha meno, in termini di risorse, diritti e prospettive. Fare politica, per una forza progressista, significa avere una visione più giusta e più equa della società. Questo ho imparato dall’esempio di mio padre.
Ho memoria delle sue campagne elettorali, a partire dalla metà degli Anni Sessanta. Quando veniva eletto, non gli ho mai sentito dire: mi sono sistemato o ci siamo sistemati. In famiglia condividevamo la soddisfazione per lo sforzo che veniva premiato, per il riconoscimento che veniva dato all’impegno, innanzitutto del partito. Il plurale prevaleva sul singolare e l’interesse generale sul particolare. Certo, non nascondeva l’orgogliosa rivendicazione di aver contribuito all’esito positivo, per accompagnarla con una dichiarazione di rinnovato e più forte impegno dell’azione del partito, perché era quello il senso che lui dava al risultato elettorale.
Le sue campagne elettorali non erano a base di manifesti e volantini con la sua faccia. D’altronde, non era questo il modo.
Il partito aveva, per mio padre, una dimensione avvolgente, quasi totalizzante. Era l’altra famiglia. Raramente lo chiamava PCI e quando lo faceva non sempre era per tesserne le lodi. Per lui era e restava il “Partito”.
Il partito lo aveva accolto quando, lasciata la casa paterna, trovò ospitalità da Pancrazio De Pasquale: il segretario palermitano del partito.
Il partito gli aveva fatto incontrare persone simili a lui, giovani pronti a battersi per le sue stesse ragioni. Il partito gli aveva dato un lavoro, quello della sua vita e pagato il primo, si fa per dire, stipendio. Il partito aveva trasformato i suoi afflati di giustizia ed eguaglianza in visione politica ideale e, allo stesso tempo, solidamente radicata nella realtà e gli aveva fornito gli strumenti per l’azione politica concreta.
Il PCI era un partito fortemente identitario, fondato sulla condivisione degli ideali che ne ispiravano la politica, e mio padre, come tanti militanti e dirigenti, viveva profondamente questa condivisione, facendosi carico della coerenza, nei comportamenti e negli atti, con gli ideali comuni, che richiedevano un senso di responsabilità e disciplina che lo hanno portato a sacrificare le ambizioni personali sull’altare degli interessi del partito.
Ho capito che riusciva a farlo perché aveva fiducia nel suo partito che gli aveva dato fiducia. E che gli aveva fatto incontrare Giuseppina Zacco.
(16 – continua)