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“Final portrait”, ovvero la gestazione di un artista

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Esiste un piccolo racconto di Honoré de Balzac incentrato sul personaggio di un pittore seicentesco che si era isolato dal mondo e da più di dieci anni lavorava a un’opera che non riusciva a terminare perché il suo intento era renderla insuperabile. S’intitola “Il capolavoro sconosciuto” ed è un mito letterario sul quale hanno meditato da Cezanne a Picasso, da Henry James a Rilke, da Croce a Calvino perché, attraverso questo personaggio-simbolo, Balzac indagava le tensioni della gestazione artistica e il senso dell’arte. Un tema profondo, difficile e raramente narrato, che Stanley Tucci percorre, in modo del tutto personale e affascinante, in “Final portrait”, il suo quinto film dedicato allo scultore e pittore svizzero italiano, vissuto tra il 1901 e 1966, Alberto Giacometti.

Stanley Tucci racconta di essere cresciuto in una famiglia in cui suo padre era pittore e lo aveva educato al bello, di essere egli stesso interessato al processo artistico, di aver immaginato questo film sin da quando, ormai più di venti anni fa, aveva letto “Un ritratto di Giacometti” di James Lord, critico d’arte americano che di passaggio a Parigi aveva accettato di posare per un quadro del noto pittore, poco tempo prima che Alberto Giacometti morisse. La testimonianza di Lord narra che Giacometti aveva parlato di uno schizzo da buttar giù in un pomeriggio, massimo due. In realtà si tradusse in un lavoro ideato e ripensato, disegnato, corretto e ridisegnato, che indusse il critico d’arte a rimandare la partenza per ben diciotto giorni che Lord, puntando sul progetto, procrastinò a sue spese: il risultato è un quadro che vale milioni di dollari e un libro che resta.

Stanley Tucci in conferenza stampa ha ammesso di non amare il biopic e di non credere che in due ore si possa condensare una vita, di aver preferito così entrare nella quotidianità di Alberto Giacometti attraverso un episodio efficace, col quale raccontare anche l’uomo con i suoi limiti: le sue complicate, egoistiche relazioni sentimentali, i suoi dubbi, le paure, la scarsa considerazione delle proprie capacità. Atmosfere che il cast rende benissimo: Geoffrey Rush (Premio Oscar per Shine, 1997) nei  panni di Alberto Giacometti è persino fisicamente somigliante. James Lord ha il corpo di Armie Hammer, già interprete di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Tucci, che rivela qualità di ottimo regista, ricostruisce fedelmente l’atelier dell’artista, nel quale in ordine sparso si riconoscono le tipiche sculture: figure filiformi, verticali, allucinate, emblema di una precisa condizione esistenziale. Guardando il personaggio con gli occhi di Stanley Tucci, verrebbe da pensare che la verticalità esprima il desiderio di innalzarsi verso la perfezione. E, infatti, di questo parla “Final portrait”, approfondendo un aspetto universale della natura di Giacometti: l’insoddisfazione e l’ansia di non raggiungere mai traguardi altissimi. Nella descrizione, approfondita e mai banale, della nascita di un quadro, si focalizza la fatica del processo creativo, la tensione a realizzare il meglio, punteggiata di critiche estreme. Il film è anche il resoconto poetico di una nevrosi, dove Giacometti è insieme infantile, irresponsabile e magnifico: in una parola un essere autenticamente umano.


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