Erdogan arriva a Roma accolto dalle proteste. Oggi alle 11 sit-in contro il bavaglio turco. La lettera di Articolo 21 sul Corriere della Sera

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Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si appresta a mettere in scena la sua passerella istituzionale con l’arroganza che da sempre contraddistingue il suo operato e la certezza di poter lasciare in un cono d’ombra le violazioni dei diritti umani e le repressioni su ogni libertà di espressione, oltre che di informazione, perpetrate in Turchia. Ma ci sarà chi gli chiederà conto di tutto ciò e illuminerà il massacro dei curdi che sta attuando nel distretto di Afrin nel silenzio della comunità internazionale.
Oggi alle 11 Articolo 21 sarà al sit-in a Castel Sant’Angelo per manifestare solidarietà ai colleghi ingiustamente incarcerati in Turchia e a tutte le vittime del regime turco.
Come abbiamo già fatto ieri attraverso la lettera aperta a Papa Francesco, al presidente Sergio Mattarella e al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni apparsa sulla prima pagina, e con ampio spazio all’interno, del Corriere della Sera, insieme a Fnsi, European Centre for Press and Media Freedom, Reporter senza frontiere, International press institute, Rete No Bavaglio e molte altre organizzazioni per la libertà di informazione, porremo  all’attenzione dell’opinione pubblica italiana i gravi abusi compiuti in Turchia dal fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, in particolar modo attraverso il controllo dell’esecutivo sulla giustizia e il generale degrado dello stato di diritto nel Paese.
Decine di migliaia di persone sono state oggetto di una repressione arbitraria che continua a peggiorare e colpisce tutte le categorie della popolazione, tra cui i giornalisti, tra i 150 e i 170 sono attualmente detenuti.

La Turchia è ormai a un punto di non ritorno sulla china antidemocratica che dal fallito colpo di Stato del luglio 2016 ha marcato una significativa escalation. Arresti e licenziamenti di massa si sono abbattuti su migliaia di persone ritenute affiliate alla presunta rete terroristica del predicatore Fethullah Gulen, ritenuto l’ideatore del fallito colpo di stato.
La prova definitiva che nel Paese non vi sia più traccia dello ‘Stato di diritto’, requisito fondamentale per una democrazia, è rappresentata dalla decisione del Tribunale penale di Istanbul di non dar seguito, per la prima volta nella storia del Paese, alla sentenza di scarcerazione della Corte   Suprema per due giornalisti, Memhet Altan e Sahin Alpay, sui quali si era pronunciata definendo incostituzionali  le motivazioni dell’arresto.
Ancor prima abbiamo assistito all’accanimento nei confronti degli operatori dell’informazione non piegati al volere del regime, come i vertici editoriali e i giornalisti di Cumhuriyet, storico quotidiano di opposizione, di cui tre dei diciotto imputati del processo che li vede accusati di favoreggiamento del terrorismo, pur non essendo stata prodotta alcuna prova a loro carico, sono tutt’ora in carcere.
Quanto sta avvenendo in Turchia ha spinto un gruppo di eurodeputati a chiedere una riunione d’urgenza per discutere sull’opportunità che la Turchia possa continuare ad aspirare ad entrare nell’Unione europea.
Già da tempo è stato ventilato a Bruxelles la possibile sospensione dei negoziati di adesione all’Ue e visto che le relazioni con Ankara sono uno dei principali punti della seduta plenaria della prossima settimana al Parlamento europeo, la discussione potrebbe entrare nel vivo proprio nelle prossime ore.
Lo Stato di emergenza perenne che tiene in ostaggio la popolazione turca, gli arresti di massa e le purghe in tutti i settori degli apparati statali attestano che il presidenzialismo autoritario di Erdogan non ha più limiti.
E non c’è alcun potere che possa contrastarlo. Basti pensare a come la giustizia sia stata piegata al suo volere per zittire e punire le voci critiche nei confronti del regime.
Dal processo Cumhuriyet emerge chiaramente che la politica controlla il sistema giudiziario.
Il processo ‘è’ un caso politico.
Gli avvocati durante il dibattimento hanno posto in evidenza l’ingiustificata detenzione degli imputati, sostanzialmente senza prove che confermassero la tesi dell’accusa di partecipazione e sostegno a organizzazioni terroristiche se non l’aver usato l’applicazione di messaggistica ByLock, utilizzata dai militari ‘traditori’ la notte dello sventato colpo di Stato.

L’unica certezza in questo processo e che a essere sul banco degli imputatomi sia principalmente la libertà di espressione. Lo dimostra la presenza alla sbarra del giornalista investigativo Ahmed Sik, uno tra i più stimati colleghi turchi mai venuto meno ai principi deontologici della professione, che nonostante la sua inattaccabile credibilità sia ritenuto fiancheggiatore di terroristi.
“La colpa di Sik è di essere tra quei pochi giornalisti che hanno rifiutato di ‘vendere’ le loro penne” ha tuonato in aula il suo avvocato richiedendone il  rilascio.
La sua voce, come quella dei difensori di tutti gli altri imputati, è rimasta inascoltata.
Lui, il direttore di Cumhuriyet Murat Sabuncu, l’amministratore delegato della Fondazione che edita il quotidiano, Akın Atalay, che rischiano fino a 43 anni di prigione, dovranno attendere in carcere la prossima udienza del processo, fissata per il 9 marzo, che dovrebbe concludersi con la sentenza per i 18 dirigenti e giornalisti del giornale di opposizione che non si è mai piegato al regime del presidente Erdogan.


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